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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2011 alle ore 06:42.

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Massimiliano Del Barba
C'è un'Italia che cresce, malgrado i venti di crisi. E che crea valore aggiunto puntando sugli investimenti in Ricerca & Sviluppo, sulla valorizzazione dei giovani talenti nonché su forti collegamenti fra il mondo del privato e della pubblica amministrazione. Sono ormai più di 800 le imprese italiane "derivate" da progetti di ricerca nati fra le aule delle università e dei centri pubblici di ricerca della penisola. Ict, elettronica, automazione industriale. Ma anche scienze della vita, nanotecnologie, energia e ambiente. Popolate spesso da un mix di docenti, studenti, dottorandi e ricercatori, le imprese spin off della ricerca pubblica generano un giro d'affari annuo che si aggira attorno ai 600 milioni di euro dando lavoro a quasi 8mila professionisti fra scienziati, tecnici e ingegneri.
Una geografia complessa e articolata, che racconta di un'Italia impegnata nello sviluppo dei settori industriali perno per la crescita futura. «Un fenomeno, quello degli spin-off italiani, piuttosto recente - spiega Chiara Balderi, borsista post-dottorato della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, curatrice insieme al professor Andrea Piccaluga e ad Alessandra Patrono di un'accurata ricerca sull'argomento, sponsorizzata proprio dall'Istituto di management dell'ateneo toscano -. Gran parte delle 802 imprese che abbiamo censito sono nate a partire dal 2000, finendo per strutturarsi essenzialmente come microimprese, più frequentemente di servizi, partecipate in genere da persone fisiche e con una ridotta presenza di partner industriali e finanziari nel capitale sociale». Il che si traduce, in soldoni, in una media di dieci addetti per impresa per un fatturato annuo medio di 700mila euro.
Emilia Romagna, Lombardia e Toscana sono le regioni dove si concentra il maggior numero di spin off. Oltre la metà delle aziende è infatti localizzata nel nord Italia e il 28% al centro, grazie soprattutto a una rosa di atenei molto attivi nei progetti di ricerca, dai Politecnici di Torino e Milano fino alle Università di Bologna, Perugia e Pisa.
I comparti maggiormente rappresentati si confermano quelli a più alta intensità di ricerca, anche se negli ultimi anni gli studiosi del Sant'Anna hanno registrato alcune tendenze evolutive. Rispetto alla prima parte del decennio, dominato dalla nascita di iniziative legate all'Ict (settore che continua comunque a rappresentare un terzo del totale degli spin off), recentemente hanno preso maggior piede iniziative imprenditoriali legate a comparti come le scienze della vita, l'energia e l'ambiente. «È il segnale della crescente maturità del fenomeno - specifica Andrea Piccaluga, docente di Economia e Gestione delle imprese all'ateneo pisano -. Nell'Ict le barriere all'entrata sono basse e bastano pochi investimenti. Le imprese life science sono invece più strutturate e impegnative, quindi stanno nascendo solo negli ultimi anni, cioè quando il sistema, nel suo complesso, si è dimostrato più preparato a questo tipo di iniziative».
Allo sviluppo delle competenze corrisponde una crescita dei ricavi, pari nel periodo 2006-2008 al 24 per cento. «L'andamento dei fatturati - aggiunge Chiara Balderi - è correlato all'età delle imprese. A una crescita consistente nei primi anni di vita segue un periodo di assestamento. Una volta che viene superato questo secondo periodo, attraverso investimenti e sviluppo dei prodotti si mostrano in grado di crescere in modo consistente».
Frena però Piccaluga: «Non dobbiamo avere aspettative eccessive. Ci vuole tempo, e può darsi che da noi non nasca nulla di paragonabile a Google. Tuttavia qualcosa di buono sta avvenendo. E per questo dobbiamo puntare a un aumento della qualità delle imprese, più che a un aumento della loro quantità». Una ricetta che, per Piccaluga, coinvolge il mondo della politica e della formazione. «Le università devono formare un po' meglio i propri ricercatori, anche dal punto di vista gestionale. Ma i governi locali, Regioni in testa, devono coordinare con maggior impegno le loro azioni di supporto. Best practices ne esistono già, pensiamo a Emilia Romagna, Toscana e Puglia».
Malgrado i punti di eccellenza, la fotografia scattata dalla Scuola Superiore Sant'Anna descrive uno scenario ancora poco sviluppato dal punto di vista delle joint venture industriali e finanziarie, mentre la propensione all'export appare frenata da una serie di limiti strutturali. I prodotti e i servizi sviluppati dagli spin off, di fatto, fanno riferimento per tre quarti a mercati di nicchia (si vedano le storie a fianco), mentre il capitale sociale è costituito per l'85% da persone fisiche e decisamente più contenuta è la presenza di partner industriali e finanziari.
Infine il mercato di riferimento rimane l'Italia, dove viene realizzato quasi il 90% del fatturato. «Uno spin off con ambizioni di crescita deve guardare oltre i confini nazionali. Tuttavia - ammette Piccaluga - avere un mercato nazionale più vivace come base e trampolino sarebbe molto utile, invece accade molto raramente». Difficile, insomma, uscire dalle nicchie iperspecialistiche e mettersi sul mercato del merger & acquisition. All'estero gli esempi non mancano. «In Gran Bretagna alcuni spin off sono cresciuti molto, ma soprattutto sono stati acquisiti per importi estremamente elevati. In Italia registriamo delle vischiosità di sistema che non facilitano certo la creazione di imprese. Possiamo contare su dei bei cervelli nei nostri laboratori universitari, ma occorre - conclude il docente di Pisa - puntare di più sull'imprenditorialità high-tech, sia con risorse finanziarie che con interventi normativi che non costano niente, come ad esempio un alleggerimento delle conseguenze da fallimento di spin off a elevato contenuto innovativo».

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