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Questo articolo è stato pubblicato il 20 settembre 2011 alle ore 06:41.

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Nelle liberalizzazioni dei mercati l'indice italiano è a metà. È il luogo comune del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, che invece la persona razionale sa definire "pieno a quota 49", perché a questa cifra è fermo l'indice di apertura in Italia. Dove 100 significa che è un mercato del tutto libero. Dal 2007, ogni anno l'Istituto Bruno Leoni, il "think tank" della sparuta pattuglia della destra veramente liberista, analizza l'andamento dell'economia italiana in chiave di concorrenza.
L'Indice delle liberalizzazioni (un volumone di quasi 400 pagine) quest'anno promuove il settore della corrente elettrica, dove la competizione è pepata, ma con gradualità – settore per settore – ci sono segmenti economici che sono liberalizzati in modo mediocre, in modo pessimo, oppure che sono addirittura monopoli: come il segmento degli acquedotti, oggetto di un referendum in primavera.
«Esistono due Italie, una poco liberalizzata e un'altra che non lo è per nulla», e con questo si spiega «la scarsa crescita economica del Paese», affermava ieri Alberto Mingardi, presidente dell'Istituto Bruno Leoni, nel presentare la nuova edizione dello studio.
Le esperienze di politici e imprese. Massimo Orlandi, amministratore delegato della Sorgenia (Cir), ricorda la pericolosissima commistione fra politica e lobby economiche. Commistione (e non sono considerazioni di Orlandi) che nel segmento elettrico ha prodotto sovraccosti per le bollette dei consumatori e dissesti nei bilanci di alcune aziende energetiche. Luca Palermo, amministratore delegato della Tnt post, cita come esempio l'affidamento al concorrente Poste Italiane di tutto il "servizio universale", servizio esente da Iva, mentre tutti i competitori devono pagare fior di Iva.
Il deputato Giorgio Stracquadanio ricorda il caso dell'approvvigionamento del metano e il settore dei voli, dove per il 60% degli italiani è strategico avere una compagnia di bandiera e il 60% degli italiani non prende mai l'aereo. «I politici in cerca di consenso hanno assecondato la richiesta di chi non usa quel servizio», dice. E Linda Lanzillotta ricorda l'acqua potabile, dove gli italiani per un malinteso hanno votato contro la liberalizzazione: per i prossimi dieci anni gli investimenti per migliorare la qualità del servizio idrico saranno bloccati, perché il sistema pubblico – ricorda Lanzillotta – non ha soldi e i capitali privati ne sono stati espulsi.
I dettagli. Il mercato elettrico è quello che ha fatto meglio (72 punti nel 2001 contro i 63 del 2007), seguito dai servizi finanziari (69 punti), mentre la televisione è scesa da 70 a 62 punti. In calo anche il trasporto aereo (da 66 a 62 punti) e quello ferroviario (da 49 a 36 punti), che insieme ai servizi autostradali (28 punti) e a quelli idrici (19 punti), fa da fanalino di coda. In crescita invece i servizi postali (da 37 a 46 punti).
Come osserva Carlo Stagnaro, che ha coordinato la ricerca, «se fino a non molto tempo fa gli italiani parevano relativamente favorevoli al mercato, il referendum “contro la privatizzazione dell'acqua” sembra certificare un cambiamento di paradigma. La retorica referendaria, sia sull'acqua sia più in generale sui servizi pubblici locali, e la schiacciante vittoria dei sì hanno frenato qualunque prospettiva per privatizzazioni e liberalizzazioni».
Hanno paura del mercato gli italiani e i politici, i quali ambiscono il voto. Eppure, non ci sono liberalizzazioni buone o cattive, ma liberalizzazioni fatte bene o fatte male. Un esempio nel segmento elettrico. Dall'avvio della liberalizzazione sono state connesse alla rete di alta tensione centrali nuove per oltre 35mila megawatt, e ora abbiamo 110mila megawatt (+50% rispetto alla potenza installata a fine 2000). La liberalizzazione è stata accompagnata dal forte impulso allo sviluppo della rete di alta tensione di Terna. Alla fine le bollette elettriche sono rimaste stabili quando i prezzi impazzivano, a dispetto dei meccanismi anticompetitivi che hanno alzato molte voci di costo.
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