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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2011 alle ore 10:14.

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Da una parte nuove iniziative, dall'altra realtà costrette a gettare la spugna. È la «selezione naturale» della crisi. Il problema a Brescia non è tanto l'aumento del numero dei fallimenti registrato nei primi 8 mesi del 2011, ma la loro qualità. Aziende conosciute, economicamente pesanti e importanti dal punto di vista del mantenimento dei livelli occupazionali che finiscono con i bilanci in rosso.

Per la precisione già 219 a fine agosto di quest'anno (erano 205 ad agosto 2010, praticamente una al giorno), a cui si aggiungono 15 società ammesse al concordato preventivo (17 lo scorso anno).
È la cancelleria della sezione commerciale del Tribunale di Brescia a tenere il conto dell'inarrestabile caduta delle imprese della provincia, 221 i fallimenti registrati nel 2009, 266 nel 2010. E l'andamento dei primi otto mesi dell'anno in corso (+7% su agosto 2010) fa intendere che si potrebbe addirittura sfiorare il record negativo di 283 raggiunto nel 2005. «A preoccupare–- spiega Stefano Rosa, presidente della sezione commerciale al quarto piano del Palagiustizia – non è il numero, ma la consistenza. Livelli come questi sono già stati toccati negli anni Ottanta. Il problema oggi è che stiamo parlando di aziende importanti, sia dal punto di vista economico che occupazionale». A trainare il record negativo il settore edile, ma anche la gdo e il caseario, dove su tutti spicca il fallimento della Medeghini, depositato in tribunale lo scorso marzo.

«Siamo di fronte a dati drammatici, sia per la produttività del territorio che per la tenuta dell'occupazione – sottolinea Francesco Saottini, responsabile dell'Ufficio vertenze della Cisl bresciana –. A fallire non sono più i piccoli negozietti, sono interi gruppi, con diversi stabilimenti produttivi. La Medeghini di Mazzano ne è un esempio». Una situazione, per Saottini, solo in parte spiegabile con la caduta dei mercati: «ci troviamo di fronte allo scoppio di una bolla, soprattutto nell'edilizia». Oltre alle aziende che chiudono c'è poi il fatto che l'ondata di fallimenti ha portato con sé un aumento dei beni, mobili e immobili, da mettere all'asta. «I curatori fallimentari sono sovraccarichi di lavoro, non si vende – confida il giudice Rosa –, e sono preoccupanti anche le prospettive nel soddisfacimento dei creditori».

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