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Questo articolo è stato pubblicato il 22 novembre 2011 alle ore 09:08.

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Il sistema pensionistico italiano dopo gli ultimi aggiustamenti è uno dei più «sostenibili» in Europa, è vero. Il suo problema sono i tempi biblici che, secondo il calendario attuale, dovrebbe impiegare per portare a regime i tanti ingredienti che gli consegneranno questa palma.

Uno dei punti-chiave, più volte ribaditi dal ministro del Lavoro Elsa Fornero nei suoi interventi in veste di studiosa del sistema previdenziale, è il passaggio al contributivo, cioè il meccanismo che calcola l'assegno sulla base delle somme versate dal lavoratore nel corso della propria vita professionale. Il contributivo è entrato nel nostro sistema pensionistico con la riforma Dini del 1995, ma il vecchio sistema retributivo, che parametrava l'assegno agli stipendi ricevuti nell'ultima parte della vita lavorativa, tarderà decenni per abbandonare la scena: la prima annualità di nuovi pensionati interamente regolata dal contributivo «puro», marginali eccezioni a parte, si affaccerà nel 2037, quando il nuovo meccanismo determinerà integralmente anche l'assegno di chi va in pensione con 40 anni di anzianità, e solo dal 2033 diventeranno la regola i primi assegni di anzianità completamente retributivi secondo i meccanismi attuali delle «quote».

Nel frattempo, chi va in pensione oggi, secondo i calcoli effettuati dalla Ragioneria generale dello Stato su una serie di profili-tipo, riceve in media un assegno piuttosto vicino agli importi dell'ultima retribuzione: di regola, infatti, i nuovi pensionati sono ancora dominati dal meccanismo retributivo, perché la riforma Dini ha escluso completamente dall'applicazione chi abbia iniziato a versare regolarmente i contributi nel 1977: dal momento che le «quote» (date dalla somma di età anagrafica e anzianità professionale) impongono 36 anni di lavoro, i primi gruppi consistenti di lavoratori interessati dalla riforma matureranno il requisito della «quota» nel 2014, e vedranno aprirsi la finestra mobile nel 2015 (nel 2016 se si tratta di lavoratori autonomi).

Proprio da qui nascono i tentativi in campo per accelerare i tempi. Sul tavolo, per il momento, campeggia l'idea di estendere il contributivo pro quota a tutti i lavoratori oggi in attività, a prescindere dalla data del primo contributo versato. Viste le date citate qui sopra, questo intervento avrebbe il vantaggio di garantire risparmi fin da subito, perché inciderebbe in particolare sugli assegni di chi va in pensione nei prossimi cinque anni; per questi profili il contributivo, nelle ipotesi allo studio, dovrebbe riguardare solo le annualità dal 2012, e attenuerebbe lo "scalone degli assegni" oggi in programma fra cinque anni. Con le regole attuali, infatti, si passerebbe di colpo da pensioni sorrette integralmente dal retributivo ad assegni pesati per almeno metà della vita lavorativa sul contributivo, con il conseguente abbassamento degli importi.

Gli effetti sul «tasso di sostituzione», cioè sul rapporto fra l'ultimo stipendio e il primo assegno previdenziale, cambiano anche a seconda delle categorie di lavoratori. Secondo i calcoli della Ragioneria, per esempio, nel caso dei lavoratori dipendenti anche con il passare degli anni la pensione di chi ha versato contributi regolari non scenderà in media sotto il 66% dell'ultimo stipendio, mentre per gli autonomi l'aliquota di contribuzione inferiore farà sprofondare gli assegni del futuro fino a quota 50-52%. Un altro squilibrio su cui è importante intervenire.

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