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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2011 alle ore 09:18.

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Sull'ultimo numero del Journal of Economic Perspectives, gli economisti Peter Diamond ed Emmanuel Saez hanno pubblicato uno studio molto complesso (io stesso ci sto ancora ragionando) sul livello di tassazione ottimale, ma c'è un argomento, nel loro saggio, che mi sembra evidenzi un aspetto interessante riguardo al dibattito politico corrente.

Nella prima parte del loro studio (intitolato «La tassazione progressiva: dalla ricerca di base alle raccomandazioni politiche»), Diamond e Saez sostengono che l'aliquota ottimale sui redditi più alti negli Stati Uniti è quella che consente allo Stato di incassare il gettito maggiore; punto e basta.

Perché? Perché se si cerca di ottimizzare una qualunque misura tesa ad accrescere il benessere complessivo, è evidente che un dollaro di reddito in più cambia molto poco per i ricchi, mentre cambia parecchio per i poveri e per il ceto medio.

Facendo una prima approssimazione, quindi, la politica tributaria deve tartassare i ricchi: non per invidia o smanie punitive, ma semplicemente per raccogliere più denaro possibile da destinare ad altri scopi.
Questo non significa che l'aliquota debba essere del 100 per cento, perché in questo caso ci sarebbero delle reazioni a livello comportamentale: i percettori di redditi alti genererebbero una minor quantità di reddito tassabile, lavorando meno o lavorando in nero. Usando parametri basati sulla letteratura scientifica, Diamond e Saez suggeriscono che l'aliquota ottimale sui redditi alti si aggira intorno al 70 per cento.

Sento grida strazianti provenire dal lato destro della sala. In mezzo al clamore, distinguo i seguenti argomenti:

1. È un furto! È una tirannia! Va bene, ho capito. Non è un argomento che possa essere discusso razionalmente: a mio parere nel mondo ci sono problemi morali ben più importanti che difendere il diritto dei ricchi a tenersi i propri soldi, ma va bene.

2. Ci sarebbe una reazione di rigetto! In altre parole, Diamond e Saez sottovalutano il peso dell'«elasticità comportamentale». Sì, forse è vero; però i due studiosi sono stati piuttosto attenti al riguardo, e non vedo perché il vostro istinto di pancia dovrebbe essere più attendibile dei loro calcoli econometrici.

3. Così si ammazza il motore occupazionale! Ecco, è qui che la faccenda si fa interessante.

In questa fase storica la retorica ufficiale della destra, e di tantissime persone che si considerano di centro, è che gli individui ad alto reddito sono «creatori di occupazione», gente da applaudire per il bene che fa.
La teoria economica di base, però, dice che in un'economia competitiva il contributo marginale che qualsiasi individuo (o, se è per questo, qualsiasi fattore della produzione) apporta all'economia è ciò che quell'individuo guadagna. Punto.

Il contributo che dà un lavoratore al prodotto interno lordo con un'ora di lavoro in più è il salario orario di quel lavoratore, che sia 6 o 60mila dollari. Questo significa che se un lavoratore sceglie di lavorare un'ora in più, l'effetto sul reddito di chiunque altro è praticamente nullo. Se un direttore di hedge fund prende 60mila dollari all'ora, e lavora un'ora di meno, riduce il Pil di 60mila dollari, ma riduce anche il suo guadagno di 60mila dollari, perciò l'effetto sul reddito di altre persone è inesistente.

Naturalmente non perderebbe per intero quei 60mila dollari, perché finirebbe col pagare meno di tasse. Dunque quel minore sforzo da parte del percettore di reddito comporterebbe un minor introito per lo Stato. Ma i calcoli fatti da Diamond e da Saez ne tengono conto, ed è per questo che l'aliquota ottimale proposta non è il 100 per cento.

Questa analisi piace alla destra? Credo proprio di no: in quella parte dello schieramento politico è radicata la convinzione che l'1 per cento della popolazione, lavorando sodo, stia facendo al 99 per cento un grosso favore, perché crea occupazione e fa aumentare il reddito; e che i soldi che guadagna quest'1 per cento non siano commisurati (o non del tutto) ai benefici che apporta alla società. La mia opinione è che questa tesi (e la venerazione dei ricchi, visti come persone che apportano un contributo importantissimo alla società) in realtà non abbia nessun rapporto con i principi economici liberisti che queste persone professano. Anche se si pensa che l'1 per cento più ricco – o, ancora meglio, lo 0,1 per cento più ricco – si sia guadagnato i soldi che percepisce, il contributo che danno queste persone coincide con la cifra che guadagnano, e di conseguenza non c'è motivo di riservare loro un trattamento di favore.
© 2011 New York Times
(Traduzione di Fabio Galimberti)

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