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Questo articolo è stato pubblicato il 20 dicembre 2011 alle ore 08:17.

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Il commercio estero frena tra settembre e ottobre. Non è un capriccio stagionale, ma il termometro del rallentamento dell'economia globale. Una frenata forse scontata, che ci ricorda che l'uscita dalla crisi passa inevitabilmente attraverso un recupero di competitività. Questo recupero richiede riforme difficili, a cominciare dal mercato del lavoro. Ma star fermi avrebbe costi ben maggiori.

La congiuntura riportata dall'Istat è chiara: le esportazioni calano del 3,2%, la frenata più significativa dopo un periodo in cui le vendite all'estero, pur sobbalzando, hanno continuato a crescere. Calano anche le importazioni, il che può apparire una buona notizia, si riduce il saldo negativo di bilancia commerciale. L'apparenza inganna: comperiamo meno all'estero perché la domanda interna cala.

Fin qui la congiuntura, ma se guardiamo nei dati con attenzione, incominciano le lezioni 'strutturali'. La prima ci viene dalla composizione delle importazioni. Le componenti che sono crollate sono quelle dei beni strumentali ed intermedi, mentre in valore sono addirittura cresciuti gli acquisti di beni energetici e rimaste costanti le importazioni di beni di consumo. Una miscela micidiale, che ci dice che le imprese non fanno più acquisti dall'estero, né investono; che le importazioni di beni di consumo, soprattutto dai Paesi extra europei, continuano a guadagnare quote di mercato, nonostante la domanda interna cali (ossia i cittadini sostituiscono beni domestici con beni importati); e che la dipendenza dall'import di prodotti energetici non è comprimibile. Soprattutto è grave il primo dato: importare input e macchinari è segno di vitalità per imprese che operano a livello globale. Ricordiamoci che l'industria italiana ancora oggi non ha ricuperato i livelli di output di fine 2007, il sistema produttivo continua a restringersi.

La seconda lezione ci viene invece dalla composizione dell'export. Il nostro Paese ha un saldo positivo nella bilancia commerciale di manufatti, soprattutto trainato dalle esportazioni nette di beni strumentali (macchine per l'industria), pari ad oltre 30 miliardi di euro nei primi 10 mesi dell'anno. I valori unitari delle esportazioni di questi beni, complessi e ad alta tecnologia continuano a crescere, indice che la concorrenza non si fa su fattori di costo bensì sull'innovazione e sulla qualità e anche sulla flessibilità ed efficienza delle attività produttive.

Cosa insegnano queste due lezioni? Intanto bisogna evitare che gli investimenti delle imprese continuino a calare. Il clima di incertezza che stiamo vivendo è devastante da questo punto di vista. L'irrequietezza degli spread e l'atmosfera da pre-recessione non aiutano, ma neppure le manifestazioni di piazza e le posizioni dogmatiche dei sindacati, che in questa fase sono piuttosto irresponsabili.

I dati aggregati nascondono performance molto diverse a livello di impresa. Anche se in media rallentiamo, molte aziende crescono e prosperano nei mercati difficili. La competitività può rinascere solo favorendo la mobilità di lavoro e capitali verso le imprese più efficienti. Difendere dunque tutele e ammortizzatori sociali fondati sul legame tra lavoratore e impresa, per quanto decotta, non serve a rilanciare l'occupazione né a proteggere i lavoratori. Le tutele devono favorire la mobilità.

La perfomance dei produttori di beni strumentali ci insegna anche che in un paese avanzato la competitività non si ottiene comprimendo i salari, già a livelli infimi, ma aumentando la produttività e l'investimento in qualità. Le imprese hanno bisogno di regole sul lavoro chiare e di flessibilità adeguata. E di poter investire a costo ragionevole su lavoratori che imparino e rimangano nell'azienda per lungo tempo, superando la precarietà e il dualismo.

I dati della bilancia commerciale ricordano che è impensabile ritrovare competitività senza superare le attuali regole del lavoro, che danno neppure tutele e futuro ai lavoratori. Non è la sola cosa da fare, ma la più importante.

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