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Questo articolo è stato pubblicato il 19 gennaio 2012 alle ore 07:23.
ROMA. «Si torna al buonsenso» sintetizzano i petrolieri. La controversa mega-riforma della rete di distribuzione dei carburanti trova, nell'ultima edizione del decreto sulle liberalizzazioni, corposi aggiustamenti. Scompare l'obbligo di vendere la metà degli impianti in mano alle compagnie, sostituito con la «facoltà» dei gestori di accordarsi per riscattare gli impianti «ad equo indennizzo» sulla base di criteri che verranno stabiliti dal ministero dello Sviluppo. Ed è stata attutita anche l'altra misura forte: la libertà per il gestore di approvvigionarsi all'ingrosso da chi vuole. Libertà concessa, per il 50% dell'erogato, solo ai gestori proprietari dell'impianto, anche se 'di marca'. Rimangono sostanzialmente immutate tutte le misure per la liberalizzazione della rete: giornali, tabacchi, piccoli ricambi per l'auto e relativi servizi, sinergie con le altre strutture commerciali.
Via alla grande riforma in grado di favorire la discesa dei prezzi di benzina e gasolio a livelli finalmente 'europei'? Interrogativo doveroso, ora che la polemica si attenua e i lavori possono partire. Per scoprire, ad un esame ponderato, che il caro benzina che opprime l'automobilista italiano è frutto, in fondo, di una congiura a più voci. Complice lo stesso automobilista.
Sussura il presidente dei petrolieri, Paquale De Vita: perché l'italiano arriva nell'impianto con il self service, ci rinuncia, si mette nella fila del servito (magari più lunga) e paga quei tre o quattro centesimi in più al litro che se non fosse per la maggior tassazione italiana equivalgono al sovrapprezzo del nostro carburante rispetto all'Europa?
Oltrefrontiera il self service è imperante. Spesso il solo mezzo per riempirsi (ben volentieri) il serbatoio. E se anche De Vita avesse solo in parte ragione mettiamoci qualche ragionamento sulla struttura industriale della nostra rete, e il gioco e fatto. A parte le presunte speculazioni dei petrolieri (e dei benzinai, visto che da qualche anno il prezzo alla pompa è libero) sui flussi del barile di petrolio e del costo industriale dei carburanti, tutto il nostro caro-benzina ha, in fondo, una spiegazione.
C'è l'insostenibilità dei margini per il gestore. Dovuta alle caratteristiche degli impianti rispetto a quelli europei: mediamente più piccoli, con meno erogato (meno della metà della Francia, un terzo dell'Inghilterra) e molto più numerosi: 23mila ancora oggi, la metà di proprietà della compagnie, quasi il doppio della Francia, il triplo dell'Inghilterra. E già questo spiegherebbe il cosiddetto 'stacco' della componente industriale del prezzo rispetto all'Europa.
Ma è il prezzo reale quello che interessa all'automobilista. E qui sono dolori. Perché entra in campo, più mordente che mai, l'ingordigia fiscale. Il Governo parla di economicità della filiera dei carburanti e mette in moto l'ennesima riforma. Peccato che ciò avvenga quando lo stesso Governo ha appena esibito la mannaia fiscale sui carburanti più poderosa della storia. Complice, certamente, una crisi della finanza pubblica non meno epocale.
Sta di fatto che a gonfiare ulteriormente e non poco il costo dei carburanti sono stati i ripetuti ritocchi all'insù delle accise, che oltretutto alimentano l'effetto volano sull'Iva (che si applica anche sull'accisa, in nome della consuetudine molto italiana della 'tassa sulla tassa'). Ed ecco che un'occhiata alla composizione del prezzo finale alla pompa (vedi grafico) ha esiti sconfortanti: tra accisa e Iva il fisco divora ormai stabilmente quasi un euro ogni litro di benzina, assegnando altrettanto stabilmente all'Italia nuovi e poco lusinghieri record europei. (F.Re.)
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