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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2012 alle ore 09:30.

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C'è un forziere da 350 miliardi di dollari che elude le casse federali americane. È il 35% di quei mille miliardi di bigliettoni verdi che le multinazionali a stelle e strisce hanno incassato negli ultimi anni in giro per il mondo, talvolta dirottati verso Paesi a bassa, o bassissima, fiscalità. Ovviamente, farebbero più comodo nelle casse delle rispettive case madri, in America. Ma la tassa dello Zio Sam sui profitti all'estero – giustappunto il 35% – consiglia loro di non affrettarsi a importarli.

Il caso da manuale è quello di Apple, la nuova regina planetaria di Borsa. L'azienda fondata da Steve Jobs ha in cassa 97,6 miliardi di dollari, di cui 64 all'estero. Su Tim Cook, il nuovo Ceo, montano le pressioni del mercato per un buy-back di azioni proprie o per la distribuzione di un dividendo che ormai manca dal lontano 1995. «Chiedo solo un po' di pazienza – ha detto Cook pochi giorni fa, durante una conferenza di Goldman Sachs – in modo da prendere decisioni nell'interesse degli azionisti». Con quei soldi, per assurdo, la Apple potrebbe comprarci la Boeing e la JP Morgan messe assieme.

Ma che dire della Cisco? La regina del networking detiene oltreconfine oltre 40 dei 44 miliardi cash che possiede. Peccato che (dopo aver distribuito l'anno scorso il primo dividendo della storia) si è dovuta indebitare per 16 miliardi: così, la società guidata da John Chambers è multimiliardaria all'estero e affamata in capitali in patria. Anche la Microsoft, che invece il dividendo lo distribuisce regolarmente (magari con l'aspirazione di alzarlo per attirare nuovi investitori), ha dovuto aprire una linea di credito perché 51 dei suoi 57 miliardi sono fuori dai confini nazionali e per rimpatriarli dovrebbe versarne il 35% nelle casse federali.

Il risultato è che queste tre potenti multinazionali, insieme a Google, al colosso farmaceutivo Pfizer, alla Duke Energy e ad altre ancora, stanno facendo lobbying a Washington per ottenere una tax holiday – «al fine di favorire le sviluppo dell'economia e dell'occupazione», reclamizza Chambers - come quella del 2004, quando le corporation riportarono in patria 312 miliardi pagando solo un balzello del 5,25%. Peccato che, secondo un paper appena pubblicato sul Journal of Finance, quell'operazione abbia finanziato più dividendi e buy-back che investimenti, definiti «modesti». Il gatto si mangia la coda: il deficit americano è alle stelle, ma quei putativi 350 miliardi di dollari non vogliono saperne di tornare a casa.

L'elusione fiscale interessa tutte le multinazionali del mondo, ma quelle che vendono servizi digitali, o che basano il proprio business su licenze o brevetti ne sono ancor più avvezze. La Apple ad esempio, ha fatto nascere la iTunes Europe Sarl – la controllata che gestisce la vendita di contenuti digitali nell'intero Vecchio Continente – in un paese a bassissima fiscalità come il Lussemburgo.

Ma il gioco viene effettuato su scala più ben più ampia. «È pratica comune trasferire proprietà intangibili sviluppate negli Usa, come licenze software e brevetti farmaceutici – dice Seth Hanlon, direttore per le riforme fiscali presso il Center for American Progress – in paesi dove il reddito di questi asset verrà tassato leggermente o per nulla».

E poi c'è il cosiddetto profit stripping: se una controllata a Bermuda (una delle destinazioni predilette dalle imprese americane) emette un prestito alla filiale italiana, quella pagherà gli interessi detraendoli dai profitti e quindi dalla tassazione in Italia. Oppure, come previsto dal tax code a stelle e strisce, se l'azienda si fa fare un prestito in America e trasferisce i fondi a una filiale estera, ci paga solo il 10% di tasse e ha diritto a un'immediata deduzione, risparmiando sugli interessi correnti.

Ecco perché, a conti fatti, le aziende-bandiera del progresso digitale americano contribuiscono al Pil e al buon nome del Paese. Ma non altrettanto alle casse federali. Con l'attuale, straordinario cash flow di cui dispone, c'è chi stima che entro la fine dell'anno la Apple avrà in cassa 150 miliardi: qualcosa di più del capitale operativo del governo federale. Però non ci sono solo le regine del mondo digitale: l'anno scorso, ad esempio, la Ge ha ricevuto una pioggia di critiche per aver pagato zero tasse a fronte di 14 miliardi di profitti, grazie al fatto che la controllata Ge Capital aveva subito pesanti perdite con la crisi finanziaria.

Certo, non c'è nulla di illegale in tutto questo. Sono i loopholes, le scappatoie stigmatizzate anche dal presidente Barack Obama, la cui amministrazione dovrebbe presentare una generale riforma della tassazione sulle imprese nel giro di poche settimane. Quel 35% resta fra i più alti al mondo e certo non comparabile con le aliquote del Lussemburgo o peggio ancora di Bermuda. Al tempo stesso però, la diaspora di quei mille miliardi di dollari – 350 dei quali attesi dal fisco con l'acquolina in bocca – grida un po' vendetta.

Chissà se Cisco, Apple, Google e gli altri riusciranno a strappare l'ambita tax holiday. Di sicuro però, potranno continuare ad accumulare tesori oltrefrontiera e a schivare sapientemente le tasse. Perché, con le presidenziali in vista, è ben difficile che i repubblicani permettano al presidente di mettere mano al tax code.

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