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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2014 alle ore 09:20.

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La prima ristrutturazione dello stadio di San Siro fu realizzata negli anni 30 del secolo scorso utilizzando la finanza che il Comune di Milano mise a disposizione dopo aver comprato l'impianto dalla famiglia Pirelli. I tempi sono cambiati. Il rilancio dell'impiantistica sportiva richiede ora l'intervento dei capitali privati, il cui impiego presuppone il raggiungimento dell'equilibrio finanziario tra i costi di realizzazione e gestione dell'impianto e i relativi proventi.
L'esperienza recente inoltre dimostra che la remunerazione dei capitali impiegati nell'edilizia sportiva non è garantita dal reddito prodotto dalla vendita dei biglietti e dai diritti correlati agli eventi sportivi, vale a dire i quelli che con denominazione inglese vengono definiti rights applicati su advertising (inserzioni pubblicitarie), naming (commercializzazione del nome dell'impianto o suoi settori) e puring (esclusiva di somministrazione alimenti e bevande).
Buona parte del reddito che ha permesso l'ammodernamento degli stadi in tutto il mondo deriva infatti dallo sviluppo sinergico di destinazioni d'uso diverse da quella sportiva, quali i servizi, il commercio, gli uffici e la residenza.
Questi principi sono finalmente riconosciuti anche in Italia attraverso le norme della legge di stabilità, secondo cui lo studio di fattibilità dei nuovi stadi può prevedere anche altri tipi di intervento, purché «strettamente funzionali alla fruibilità dell'impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell'iniziativa».
Per quanto la norma precisi che tra le nuove funzioni sia esclusa la residenza e richieda, in continuità con le migliori pratiche internazionali, che gli usi correlati «concorrano alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici», è evidente che la nuova legge apre la via alla realizzazione di una impiantistica moderna, multifunzionale, produttrice di reddito e di servizi per la comunità.
La possibilità di affiancare allo stadio altre destinazioni urbane pone ovviamente il problema di garantire la conformità del progetto con le previsioni del piano regolatore comunale, che non sempre consentono di affiancare agli stadi i servizi privati, il terziario e le funzioni retail. È questo un tema che accompagna tutte le politiche di governo del territorio e che notoriamente è complicato dal contrasto esistente in materia tra competenze regionali e statali.
Secondo il vigente assetto costituzionale, è esclusiva prerogativa delle Regioni dettare le regole procedurali attraverso cui mutare le previsioni urbanistiche comunali. La Corte Costituzionale ha così annullato le leggi statali che prevedevano meccanismi accelerati di variante urbanistica per favorire la riqualificazione urbana (decisione n. 393/1992), la dismissione degli immobili pubblici (decisione n. 340/2009), il social housing (decisione n. 121/2010).
La legge stadi sul punto prevede un meccanismo estremamente veloce per cambiare le previsioni dei piani regolatori che, per esempio, non consentano la realizzazione di un centro commerciale ai margini dello stadio, stabilendo che «il provvedimento finale sostituisce ogni autorizzazione o permesso comunque denominato» ivi compresa, quindi, la variante urbanistica.
Ora, è vero che in tal caso il provvedimento si forma attraverso una conferenza di servizi decisoria indetta proprio dalla Regione, ma è altrettanto vero che la procedura di variante è dettata direttamente dalla norma statale e prevede meccanismi sostitutori in capo alla presidenza del Consiglio dei ministri.
I dubbi di incostituzionalità che pendono sulla norma possono superarsi attraverso leggi regionali che recepiscano le previsioni della disciplina nazionale anche in ambito urbanistico, oppure seguendo le ordinarie procedure di variante previste in sede locale, anche utilizzando la disposizione del comma 304, per cui comunque «resta salvo il regime di maggiore semplificazione previsto dalla normativa vigente».
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