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Questo articolo è stato pubblicato il 30 settembre 2010 alle ore 07:47.
Perché il Brasile? Come accade che l'allarme sulla "guerra valutaria" arrivi da Guido Mantega, ministro delle Finanze di un paese emergente, sia pure in rigoglioso sviluppo? Semplice: perché sta cambiando tutto. Il sistema valutario globale è alla ricerca di una nuova valvola di sfogo che assorba, apprezzandosi, le pressioni a cui è sottoposto. Chi sarà la vittima? Un tempo era l'euro, che saliva senza resistenze; oggi però è alle prese con una difficile crisi fiscale; in gioco è la credibilità dei governi-debitori e la loro limitata fiducia non permette alla valuta comune, che pure ha superato ieri quota 1,36 dollari, di salire più di tanto. Quota 1,60, insomma, è lontana.
Per qualche tempo era stato individuato, come sostituto, lo yen: si può immaginare una moneta fluttuante più sottovalutata? A Tokyo, però, è entrato in campo un altro fattore: il governo, che non ha mai permesso al cambio di apprezzarsi oltre una certa soglia. Se il sistema valutario può sembrare un vero mercato - scambia 4mila miliardi di dollari al giorno e cui nessuno può rivendicare un potere sui prezzi - è in realtà fortemente condizionato dalla politica. I cambi possono essere rigidi o flessibili in gradazioni diverse, e la moneta è emessa, in prima battuta, dagli stati che cercano di fissarne anche il costo. I tassi di interesse, solidamente alla guida dei flussi valutari, lasciano che i cambi si sgancino facilmente dall'economia reale.
Parlare di guerra è allora un'esagerazione, ma non una sciocchezza. Le politiche monetarie messe in campo dopo la crisi creano di fatto, come conseguenza forse non sempre voluta ma comunque ineludibile, un conflitto tra valute, quasi una successione di "svalutazioni competitive" che prevede almeno un perdente costretto ad apprezzarsi almeno fino a quando non riesce a spostare il peso su qualcun altro. Il risultato, come negli anni 30, è un continuo disordine. È per questo motivo che molti economisti, come Martin Wolf, chiedono un accordo sul tema; lo fa persino Barry Eichengreen dell'Università di Berkeley che pure sottolinea come i deprezzamenti aiutino e spesso sostituiscano politiche monetarie espansive.
Di svalutazioni competitive, anche indirette, si parlò già nel marzo 2009, quando la Banca nazionale svizzera annunciò di essere pronta a intervenire sul mercato, vendendo franchi, per bloccare un eccessivo apprezzamento del cambio. Sembrava una dichiarazione di guerra ma ora appare come il semplice preparativo, da parte di un'economia non grande, a resistere a pressioni fortissime. Berna ha fallito - il franco ha guadagnato terreno - ma si è rivelata un'avanguardia. Ha riaperto una strada già ampiamente battuta dai paesi asiatiche - Corea, India, Malaysia, Taiwan, Filippine e Singapore sono oggi attivissime - e ora percorsa anche da Tokyo e da alcuni governi latinoamericani come la Colombia e presto, forse, il Cile.
Anche l'esperienza della Banca del Giappone - la più esperta nel campo - è stata però un insuccesso: ieri lo yen era tornato ai livelli del 15 settembre, giorno dei primi acquisti sul mercato. Le difese che i governi possono apprestare sono vulnerabili e persino la Grande muraglia del cambio fisso risulta permeabile. La Cina tiene fermo lo yuan, continuando a suscitare le ire degli Usa, ma ha visto crescere enormemente come conseguenza diretta i prezzi delle case: ha dovuto frenarli, solo per assistere al una corsa dell'inflazione che dal -1.6% di febbraio 2009 è ora al 3,5 per cento.
Alla fine, almeno nell'immediato, vince il più forte: il dollaro, ieri ai minimi da otto mesi verso le principali valute, dietro il quale c'è non a caso la più aggressiva delle banche centrali, la Federal reserve, che inonda gli Usa di liquidità. I cavalli americani, le aziende, non bevono però a questa fonte, come ha spiegato David Wheelock della Fed di St. Louis, e quelle risorse restano in circolazione nel sistema finanziario, e arricchiscono la liquidità globale.
Con effetti pericolosi. Secondo l'ultimo Global Financial Stability Report del Fondo monetario internazionale: c'è un nesso statistico piuttosto forte tra la liquidità generata nelle maggiori aree economiche del G-4 e i rendimenti delle borse dei paesi che assorbono questi capitali; e l'impatto della liquidità globale è cinque volte maggiore dell'effetto di quella interna in quattro paesi, tutti a rischio bolla (non solo valutaria): a Hong Kong, in Cina, in Cile e, naturalmente, in Brasile.
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