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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2011 alle ore 13:13.

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Cesare GeronziCesare Geronzi

L'ultima uscita pubblica, una delle poche, era stata lo scorso novembre, quando all'Università romana della Sapienza aveva tenuto una lectio magistralis. Era poco prima dello scoppio dell'ultima guerra di Trieste, che ha portato alle dimissioni di oggi. Eppure allora parlò di pacificazione: «Abbiamo riportato la pace in Mediobanca e Generali», disse, riferndosi alla tregua di qualche anno prima tra gli azionisti italiani e quelli francesi in Mediobanca, di cui assumerà la presidenza di lì a poco.

Ma la pax geronziana evidentemente era destinata a finire, e l'uomo abituato a tutte le mediazioni questa volta ha trovato sulla sua strada una realtà molto più complessa come la compagnia triestina, più avvezza alle austerità austungariche che alle relazioni della capitale, giocate tra politica e monsignori, anche se era del tutto assente dal proscenio mondano della terazza romana.

La sua ascesa da ragazzo della provincia - è di Marino, sui Castelli, dove ha semopre mantenuto la casa e dove la famiglia ha avuto parte attiva nella vita della cittadina nota per il vino rinato all'alta qualità - parte dalla Banca d'Italia di Guido Carli, di cui si è sempre professato allievo. Lì controllava i cambi e avviò un sodalizio che sarebbe durato nel tempo con Antonio Fazio, che si ruppe nel 2003 sulla partita dell'Antonveneta, che il Governatore intendeva sterzare verso la Popoalre di Lodi (come è andata a finire è noto, e occupa ancora le aule giudiziarie). Ma le cose cambiano: significativa è stata la sua recente dichiarazione a favore dell'ex governatore, quando gli ha publicamente riconosciuto di aver avviato con sucesso «il disboscamento» del sistama bancario.

Uscito da Via Nazionale prima va al Banco di Napoli, poi a guidare la sonnacchiosa cassa di Risparmio di Roma, che trasforma nel nucleo aggregregante che attraverso fusioni successive - prima il Santo Spirito, poi il Banco di Roma, poi la Bna, il Mediocredito Centrale e altre realtà minori - diventa Capitalia. E da presidente ufficialmente non operativo ha sempre tenuto ben stretta la barra, andando a scontri duri con manager come Matteo Arpe, che di valore ne avevano creato. Aveva sempre vinto - con le buone o con le cattive - e sempre senza l'impressione che volesse apparire un mite. Solido il rapporto con il Vaticano - in particolare con il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone - e ancor più con la politica: quello storico è con Giulio Andreotti, per arrivare a Silvio Berlusconi (che lo definì unico banchiere non legato alla sinistra ai tempi della primarie del Pd), passando anche per Massimo D'Alema e Piero Fassino. Diverse le beghe giudiziarie in cui è incappato e poi uscito, ma quella che resta in piedi con evidenza è il crac Cirio: il banchiere è indagato per frode riguardo l'emissione e collocamento dei bond Cirio tramite Capitalia. Il 2 marzo 2011 la Procura della Repubblica di Roma ha richiesto per lui 8 anni di reclusione.

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