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Questo articolo è stato pubblicato il 06 aprile 2011 alle ore 14:53.
«Amo le cose complesse, se no non mi intrigano». Appena nomitato a presidente delle Generali, all'assemblea degli azionisti, Cesare Geronzi commentava così il suo arrivo a Trieste. Era il 25 aprile dello scorso anno e per il pluridecorato banchiere romano (fondatore di Capitalia e poi presidente di Mediobanca) sembrava aprirsi una nuova stagione ricca di soddisfazioni. La guida del colosso assicurativo - la terza compagnia europea con asset in gestione per quasi 400 miliardi - sembrava il coronamento di una carriera di successo, costruita coniugando assieme conoscenza del mondo bancario e solidi legami politici.
Nel nuovo contesto assicurativo si apriva per lui la possibilità di indirizzare le Generali nel ruolo di attore "di sistema" della finanza italiana. Le condizioni c'erano tutte. Un consiglio di amministrazione con una presenza estera dimezzata ma, in compenso, affollato di importanti imprenditori italiani con i quali dialogare Lorenzo Pelliccioli (De Agostini) Leonardo Del Vecchio (Luxottica), Francesco Caltagirone. E un management operativo che non aveva gradito la sua nomina e che però stava sulla difensiva. Benchè privo di deleghe Geronzi ha avuto da subito assegnata la responsabilità delle funzioni concernenti le relazioni esterne, la comunicazione e i rapporti istituzionali. Un ruolo nevralgico per influire sull'immagine, se non sulle scelte, del gruppo. Proprio su quelle deleghe nei mesi successivi è stata combattuta la battaglia per la leadership nelle Generali.
In una società quotata presidente e amministratiore delegato normalmente vanno d'accordo ma è soprattutto il presidente che "deve" trovare un'intesa con chi detiene le leve operative dell'azienda. Così non è stato per Generali. Da subito infatti il Ceo di Grupppo Giovanni Perissinotto e Geronzi si sono trovati su posizioni diverse. Fin quando Geronzi si è limitato a indicare suoi collaboratori in un ruolo già occupato nell'organigramma del gruppo (l'ex-Banca D'Italia Angelo De Mattia come responsabile del centro studi) o a creare sua sponte organismi informali (il comitato di presidenza) le tensioni non sono trapelate all'esterno. Ma il conflitto è divenuto esplicito quando il presidente ha voluto dire la sua sugli investimenti o su modifiche alla governance (in materia immobiliare) non discusse in precedenza nel board.
Le ostilità sono state ufficilmente aperte il 14 febbraio scorso quando comparve un'intervista di Geronzi sul Financial Times. In essa l'ex banchiere annunciava che il gruppo triestino avrerbbe potuto «prendere in considerazione di investire di più nelle banche italiane» - proprio il contrario di ciò che Perissinotto aveva detto agli analisti a fine dicembre all'investor day della compagnia. Non solo. Il presidente di Generali si mostrava possibilista su un possibile investimento nel Ponte di Messina e aggiungeva che «il nostro obiettivo fondamentale è di investire in Sud America – ha spiegato – accanto ad altre opportunità che stiamo valutando». Non si è mai capito perché Geronzi abbia dato quell'intervista ma dall'esterno è apparsa come un tentativo di delegittimare l'amministratore delegato.
Il livello dello scontro è salito ancora quando, il mese successivo, il vicepresidente delle Generali Vincent Bolloré (in grande confidenza con Geronzi) si è astenuto sui conti 2010 del gruppo e, in una successiva intervista, ha seminato più di un dubbio sull'operato della compagnia e, in particolare, sulla validità degli accordi stipulati dal Leone in Europa dell'est con il finanziere ceco Petr Kellner. In quell'occasione Geronzi rimase silenzioso ma furono in molti a immaginare una regia comune tra i due volta a scalzare Perissinotto dal suo incarico. È accaduto in verità prorpio il contrario. Ci è subito resi conto che in consiglio la posizione di Bolloré e Geronzi era assolutamente minoritaria e che dall'esterno della compagnia si chiedeva un chiarimento di fondo. A perorarlo – a quel che si sa - era anche il ministro dell'Economia Giulio Tremonti preoccupato che fosse messo a repentaglio lo sviluppo di uno del pochi "campioni italiani" nella finanza internazionale. E lo esigevano anche gli analisti finanziari. Bob Gullet, il decano degli analisti assicurativi londinesi, in un'intervista al "Sole 24 Ore" (26 febbraio) espresse il suo scetticismo sulla possibilità che Geronzi potesse convertirsi sulla via di Damasco. «Un leopardo non cambia le sue macchie, almeno non così rapidamente e facilmente». Fin quando Geronzi fosse rimasto alla guida del gruppo gli investitori esteri avrebbero continuato a manifestare scetticismo sul futuro della società (insomma, non avrebbero comprato i suoi titoli). Oggi all'annuncio delle dimissioni del presidente sono subito partiti gli ordini di acquisto delle Azioni Generali che in pochi minuti hanno guadagnato quasi il 5 per cento. Tanto per chiarire quale era il sentiment del mercato.
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