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Questo articolo è stato pubblicato il 17 giugno 2011 alle ore 07:51.

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di Antonella Olivieri
I mercati europei sono paralizzati dallo spettro del default della Grecia. Ma esiste anche il rischio opposto del 'too big to fail' che interessa da vicino il cuore del vecchio continente e, cifre alla mano, spiega perché nel dopo Lehman i Governi europei si siano tanto prodigati per aiutare, se non addirittura 'salvare' i campioni nazionali.

Dall'indagine R&S-Mediobanca sulle principali banche internazionali emerge infatti che nei Paesi dell'Unione gli attivi delle prime due banche valgono più del Pil. Un multiplo in parecchi casi. Si va dal top della Svizzera dove Ubs e Credit Suisse contano 4,7 volte il prodotto interno lordo elvetico, al 'minimo' rappresentato dall'Italia dove il totale dell'attivo di UniCredit e Intesa-Sanpaolo vale più o meno quanto il Pil della Penisola. In mezzo ci sono Paesi piccoli come l'Olanda che vede le prime due banche pesare 3,2 volte il prodotto nazionale e Paesi più grandi ‐ come Francia e Regno unito ‐ dove la coppia dei maggiori istituti vale circa il doppio del Pil. Comunque un'enormità.

Tutto bene, se le banche sono 'tranquille'. Ma se invece in pancia hanno qualche elemento di rischio in più, allora la cosa è diversa. Per esempio, dovessero girare storti i derivati nei portafogli delle due big elvetiche si rischierebbe di bruciare un anno di ricchezza nazionale. Ma anche la Germania, che è vicina ai numeri dell'Italia, ha una componente relativamente alta di derivati - per le prime due banche pari al 31,5% del Pil - poco sotto il 40,3% della Gran Bretagna. Oltretutto il contesto del settore è ancora incerto. L'andamento del primo trimestre di quest'anno ‐ -1,1% i ricavi, -11,5% gli utili netti nell'aggregato del credito continentale ‐ sembra infatti mettere in dubbio il ritmo di recupero della 'normalità'. I livelli pre-crisi sono ancora lontani: alla fine dello scorso anno il risultato corrente del paniere europeo era ancora sotto del 9,6% alla media degli anni 2000-2007, mentre le banche Usa erano sotto del 12%. In compenso le svalutazioni crediti erano del 10% superiori per le europee, del 13,7% per le americane.

Ma qual è il metro del rischio di una banca? L'esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che non basta guardare ai parametri di vigilanza tradizionali. Le banche dei tempi moderni fanno anche altro che non il semplice dare/avere del denaro. La classifica europea del core tier 1, per esempio, vede in testa nel 2010 l'Ubs, che vanta un ratio del 15,3%. Ma se si va a vedere la 'leva' (il rapporto tra attivo tangibile e capitale netto tangibile) ‐ che non a caso Basilea 3 prenderà in considerazione ‐ si scopre che il numero 1 del credito svizzero, con un valore superiore a 31, si colloca sopra la media: 27,4 per le banche europee considerate nello studio. Al contrario, Intesa-Sanpaolo, che a fine dicembre, prima dell'aumento di capitale, aveva un core tier 1 del 7,9%, presentava però in compenso una leva limitata a 22,1 volte, poco sopra il livello di UniCredit (21,5). Profilo di rischio, per le italiane, che si ridimensiona ulteriormente se si introduce nel mix degli ingredienti anche il peso dei derivati sul totale dell'attivo: Intesa è al 7%, UniCredit al 9,3%. Distanza siderale rispetto a Deutsche Bank, che guida la classifica delle banche più esposte ai derivati con una percentuale dell'attivo del 34,5%, e a Ubs (33,3%) e Royal Bank of Scotland (29,4%), che la seguono a ruota.

Oltretutto, buttarsi sulle attività più rischiose 'paga' in termini estetici. Mediamente chi ha la leva alta, finanzia poco l'economia. Assume dunque meno rischi per l'attività creditizia tradizionale e fa meno fatica a mantenere pingui i ratio di vigilanza. Caso-tipo quello di Deutsche Bank che ha una leva molto elevata, pari a 54,3 volte, la minima esposizione del campione verso il credito tradizionale ‐ con gli impieghi verso clientela che rappresentano solo il 24% dell'attivo ‐ e risk weighted assets (Rwa, portafoglio ponderato per il rischio, come calcolato ai fini dei parametri di vigilanza) che sono solo il 18% degli attivi totali. Vale a dire: per quanto riguarda la banca tedesca l'82% degli asset 'sfugge' alla misurazione dei rischi. Ciononostante, le attività classificabili come 'illiquide', che comportano perciò un'elevata esposizione ai 'pericoli' di mercato, superano abbondantemente il patrimonio netto tangibile (133% il rapporto tra asset di livello 3 e il capitale netto tangibile). Nel campione di banche considerate da R&S-Mediobanca è Dexia in realtà a presentare la leva più alta (66,8) e il maggior livello di attività illiquide (619% del patrimonio netto tangibile): la banca belga però ha anche un'esposizione elevata sull'economia, con il 62% del totale dell'attivo spiegato dai crediti alla clientela.

Le banche tricolori sono invece allineate alla media delle tradizionali: leva intorno a 22 volte, Rwa pari a circa la metà degli attivi, attività illiquide relativamente contenute (12% del patrimonio netto tangibile per Intesa, 25% per UniCredit).

La riforma dei parametri di vigilanza ‐ Basilea 3, che andrà a regime a fine decennio ‐ fa tesoro delle criticità emerse finora: introdurrà infatti criteri per tener conto della leva e renderà la ponderazione degli asset a rischio più sensibile alle attività finanziarie oggi sottostimate. Fuori dall'eurozona, il concetto della leva è già stato introdotto nelle 'misurazioni' di alcune banche centrali. Con risultati, tuttavia, non sempre all'altezza delle attese. In Canada ‐ dove, semplificando, si può dire che il tetto alla leva è di 20 volte ‐ il sistema ha tenuto. In Svizzera e Stati Uniti (leva massima 33, in entrambi i casi), un po' meno. C'è da dire che l'approccio della Confederazione elevetica è singolare: dall'attivo a rischio si detraggono infatti tutti i prestiti concessi ai residenti.

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