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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2011 alle ore 08:04.

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John Boehner (Ap)John Boehner (Ap)

Una vittoria per gli americani. Così il portavoce della Casa Bianca Jay Carney ha definito l'accordo per evitare il default raggiunto domenica sera. E come tale il vicepresidente Joe Biden ha cercato di 'venderlo' ai suoi compagni di partito in una serie di incontri a porte chiuse condotti per strappare il loro voto favorevole.

Ma la realtà è che a Washington nessuno è nelle condizioni di cantar vittoria. Meno di tutti il presidente Barack Obama, al quale in un estenuante braccio di ferro i repubblicani hanno strappato una concessione dopo l'altra. Fino a costringerlo a fare pubblicamente proprio un compromesso fortemente squilibrato a favore dei tagli e senza alcuna prospettiva di quell'aumento degli introiti fiscali che Casa Bianca e partito democratico avevano ripetutamente chiesto come contropartita.

Ma nessuna celebrazione per John Boehner, il leader repubblicano speaker della Camera che ha condotto le trattative per conto del Grand Old Party, o Gop, come è altresì conosciuto il partito repubblicano. Boehner ha infatti dovuto accettare un concetto che nella sua prima intervista dopo l'elezione alla presidenza della Camera si era addirittura rifiutato di citare per nome - quello del compromesso politico. Lo speaker era consapevole che questa scelta non sarebbe stata stata facilmente digerita dall'ala più radicale del partito, quella che già venerdì scorso aveva dimostrato il proprio malcontento votando no al suo piano di tagli.

Chi più (Obama) chi meno (Boehner), i due leader si sono trovati con le spalle al muro. Per evitare il rischio finanziario di un evento senza precedenti, hanno dovuto accettare quello politico di perdere il supporto della propria base. Se l'economia continuasse a deteriorarsi nei prossimi mesi, saranno entrambi accusati di aver fatto troppe concessioni all'avversario. E in questo caso non sarebbe solo Obama a rischiare di perdere il posto. Anche Boehner verrebbe probabilmente abbandonato dalla propria base.

La più evidente indicazione della scarsissima appetibilità politica del compromesso raggiunto domenica sera è venuta ieri dalla reazione dei candidati Gop alle presidenziali del 2012. Con l'eccezione di Jon Huntsman, l'ex ambasciatore a Pechino ritenuto tra i più moderati del drappello, hanno tutti preso le distanze dall'accordo. La più decisa, come prevedibile, è stata la beniamina del Tea Party Michelle Bachmann, che ha dichiarato: «Qualcuno deve dire di no. E io lo farò». Attraverso il suo portavoce, l'ex governatore del Minnesota Tim Pawlenty ha detto che l'accordo «non è niente da celebrare... e fa ben poco per riformare un sistema di spesa insostenibile per i nostri figli e i nostri nipoti». Persino Mitt Romney, l'altro moderato del gruppo, ha criticato il compromesso dicendo che «il mio piano avrebbe prodotto un budget con tagli, tetti e l'equilibrio tra entrate e uscite anziché uno che lascia la porta aperta a un aumento delle tasse e a tagli alla difesa».

Sull'opposto versante politico i benefici per chi si oppone all'accordo sono meno forti e diretti. Perché nessuno sembra disposto a farsi avanti e sfidare Obama in improbabili primarie democratiche. Ma questo non ha impedito a deputati quali il progressista Raul Grijalva di esprimere tutta la loro rabbia. «Questo accordo mette a rischio la vita della gente per cercare di soddisfare la destra più radicale», ha dichiarato Grijalva annunciando il suo voto contrario.
Ma alla fine l'ala liberal del partito democratico non se l'è sentita di abbandonare il presidente - e forse il Paese - e si è schierata a favore dell'accordo. Seppur con evidente frustrazione. A esprimerla apertamente è stato l'ex comico televisivo oggi senatore del Minnesota Al Franken: «Non capisco come i repubblicani possano non ritenersi soddisfatti. Perché a me pare che a scendere a compromessi qui siano stati solo i democratici».

cgatti@ilsole24ore.us

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