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Questo articolo è stato pubblicato il 20 giugno 2012 alle ore 06:56.

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di Antonella Olivieri

I derivati: una mina si aggira per l'Europa. E le regole non riescono a intercettarla, anzi sono proprio le regole – la prossima introduzione di Basilea 3 – ad aver guidato la ricomposizione dei portafogli delle banche nella direzione di una maggior assunzione di rischio, visto che il 97% dei derivati di cui sono imbottiti i big del credito continentale è di natura speculativa. Le cifre parlano chiaro: sono quelle dei bilanci analizzati da R&S-Mediobanca nello studio sulle «Maggiori banche internazionali».

Il campione di riferimento è quello delle venti maggiori banche europee, che tutte insieme sono una "potenza" con attivi di bilancio pari a oltre due anni di Prodotto interno lordo dell'area. Ebbene, queste banche, dallo scorso anno si sono messe a vendere a manbassa i titoli in portafoglio per alleggerirsi di asset che assorbono capitale di vigilanza, e in compenso si sono gettate sui derivati, che invece sono quasi ignorati ai fini dei ratio patrimoniali. Risultato: i 5.854 miliardi di derivati che hanno in pancia sono arrivati a contare più della metà del Pil europeo. Per essere più precisi, mentre l'incidenza sul Pil dei titoli in portafoglio è di colpo calata dal 48,1% del 2010 al 40,9% del 2011, quella dei derivati è balzata dal 41,3% al 53,2%. I due terzi sono scommesse sui tassi d'interesse, ma 450 miliardi sono puntati sul "merito di credito", 670 sui cambi.

Dov'è il problema? Il problema è il rischio latente. Per un "errore" JP Morgan ha perso 2 miliardi di dollari su questi prodotti. Ma non c'è neanche bisogno di sbagliare troppo. Un 10% di perdite sui derivati sarebbe in grado di mangiarsi più della metà (precisamente il 55,6%) del patrimonio di vigilanza delle grandi banche europee, cosa che non succederebbe nemmeno se tutti i crediti dubbi andassero in fumo (in quel caso il capitale regolamentare diminuirebbe del 49,3%). Salvo che, a differenza degli impieghi, i derivati non entrano nel conto. Le perdite però sì. Tanto più che la massa dei derivati è sette volte il patrimonio netto tangibile dei signori del credito.

Un problema che non riguarda solo l'Europa, anche se negli Stati uniti, che sono stati la culla della finanza innovativa, il fenomeno appare relativamente più contenuto, anche perchè il sistema è più frazionato. Nel novero dei big, a parità di criteri di selezione, rientrano solo sette banche made in Usa, i cui attivi sono pari all'87,4% del Gdp americano. Anche qui i derivati sono cresciuti, ma in misura inferiore, passando in un anno dal 26,7% del Pil a stelle e strisce al 32,8%: in valore assoluto, da 3.886 a 4.954 miliardi di dollari, di cui 380 sul merito di credito e 370 sui cambi. Va detto però che dalla quinta all'ottava posizione per dimensioni compaiono le "filiali" di quattro istituti europei che, come tali, rientrano nella classifica del Vecchio Continente.

Le medie non fanno giustizia delle differenze. Che ci sono anche in questo caso. Le due maggiori banche italiane sono infatti relativamente poco esposte sui derivati: Intesa-Sanpaolo per l'8,1% del totale attivo, UniCredit per il 12,7%. Poco esposta anche la britannica Lloyds (6,8%), ma è un'eccezione perchè le connazionali Rbs (35,1%) e Barclays (34,5%) sono invece al top, dietro solo a Deutsche Bank che coi derivati sfiora il 40% dell'attivo. Per non restare indietro, lo scorso anno anche Hsbc si è data da fare, aumentando del 64,4% i derivati attivi che ora pesano per un quinto del totale di bilancio, poco sotto le francesi Bnp (23,5%), Crédit Agricole (22,2%) e SocGen (21,5%). Quanto a propensione allo strumento non scherzano neppure le banche elvetiche, che hanno circa un terzo dell'attivo spiegato dai derivati (33,2% Crédit Suisse, 34,3% Ubs).

Insomma, comunque la si giri, ma una mina vagante dagli effetti potenzialmente devastanti. Tanto da rimpicciolire persino il rischio Grecia che pure, lo scorso anno, per le stesse venti banche è costato 21,2 miliardi di minusvalenze solo sui titoli di Stato. L'esposizione residua ammonta a 7,76 miliardi, concentrata in particolare su Crédit Agricole (2 miliardi), Bnp Paribas (1,43 miliardi), ma anche Commerzbank (800 milioni). In tutto il debito sovrano dell'Europa periferica – oltre alla Grecia, anche Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna – conta per 303 miliardi nei portafogli delle grandi banche continentali. Le più "solidali" sono le francesi, con Bnp che ha 14,47 miliardi di BTp, 2,69 di bond portoghesi, 1,39 di titoli irlandesi, mentre Crédit Agricole ha 10,7 miliardi di titoli pubblici italiani, 3,3 di bonos spagnoli, 2,47 di obbligazioni portoghesi e 1,45 di irlandesi. Su Roma hanno scommesso anche Dexia (9,8 miliardi) e Commerz (7,9 miliardi), che ha anche 2,8 miliardi di bonos.

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