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Questo articolo è stato pubblicato il 14 luglio 2012 alle ore 09:33.

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di Dino Pesole
ROMA - Se il declassamento del nostro debito pubblico da parte di Moody's si tradurrà nel poco auspicabile, ulteriore aumento dello spread, e se questa tendenza non si arresterà, il governo dovrà mettere in conto un maggior esborso per gli interessi da circa 10 miliardi l'anno. E agosto è un mese a rischio sui mercati. L'unica strada a quel punto per evitare un nuovo intervento in corso d'opera è che si attivi lo scudo antispread così come va definendosi in sede europea, senza «ulteriori condizionalità» e dunque senza passare da quella sorta di commissariamento da parte della "trojka" (Fmi, Bce e Commissione europea), subìto da Grecia, Irlanda e Portogallo, e ora in parte anche dalla Spagna.

È la variabile più a rischio del nostro bilancio pubblico, che richiederà tra breve (ma non prima di settembre), un riesame attraverso la Nota di aggiornamento al «Def». Il punto debole resta la drastica frenata dell'economia. Ad aprile, forse un po' ottimisticamente, il Governo aveva stimato una caduta del Pil dell'1,2% nell'anno in corso, con il deficit a quota 1,7 per cento. Pare ormai già acquisito che il deficit scivolerà oltre il 2% del Pil, per effetto dell'ulteriore contrazione della crescita, che per la Banca d'Italia non sarà inferiore al 2%, mentre per Confindustria si scivolerà al 2,4 per cento.

La Commissione europea, nel suo rapporto di maggio si è mostrata più prudente con il Pil a -1,4% e il deficit nei dintorni del 2 per cento. Paghiamo, com'è evidente, il peso di un debito pubblico pari al 123,5% Pil, che comprime il nostro bilancio al punto da dover impegnare, rebus sic stantibus, 80,7 miliardi (pari al 5,3%) solo per far fronte agli interessi passivi. Una stima che risale ad aprile, peraltro decisamente più incoraggiante rispetto a quella dei primi di dicembre dello scorso anno, quando il Governo aveva previsto per l'anno in corso una spesa per interessi di 94,2 miliardi (5,8% del Pil).

In quelle settimane il differenziale di rendimento dei titoli decennali italiani rispetto a quelli tedeschi oscillava tra i 400 e i 500 punti base. Ora siamo di nuovo a quel livello. Torniamo così alla stima di partenza, dunque 14,2 miliardi in più, che scendono a circa 10 miliardi se depurati dal miglior andamento registrato nei primi mesi dell'anno.

L'ulteriore conferma viene dall'Istat che, nel fotografare l'andamento dei conti pubblici del primo trimestre dell'anno (il deficit si è attestato all'8% del Pil), ha conteggiato un aumento del 16% per gli interessi, rispetto allo stesso periodo del 2011. Dunque 2,6 miliardi in più, che se proiettati sull'intero anno (e tenendo conto dell'attuale livello dello spread) portano appunto a circa 10 miliardi il costo della nuova impennata del differenziale Btp/Bund.

In un quadro di tale persistente criticità, si può tuttavia far leva su alcuni fondamentali punti di forza. Il primo è la posizione di sostanziale pareggio di bilancio («close to balance» che equivale allo 0,5% del Pil) programmata per il 2013. Risultato che dovrebbe essere raggiunto grazie ad un saldo primario (al netto della spesa per interessi) del 3,6% e a un saldo di parte corrente (dunque risparmio pubblico) dello 0,9 per cento. Nel fatidico 2013, l'appuntamento con il «quasi pareggio» di bilancio dovrebbe essere garantito da un avanzo primario del 4,9% e un saldo di parte corrente del 2,1 per cento. Due variabili in grado di compensare l'onere per interessi (5,4%).

Tutte cifre che confermano ancora una volta il dato fondamentale. L'unica strada per rendere sostenibili i conti pubblici nel medio periodo è abbattere questo enorme flusso di risorse destinate al finanziamento passivo del nostro debito pubblico. Operazione da condurre contestualmente dal lato del denominatore (la crescita) per la parte che ci compete (il resto è la variabile internazionale) e da quello del numeratore. L'anno decisivo da questo punto di vista sarà proprio il 2013.

Se i conti sono sostanzialmente in linea, non si forma nuovo debito e dunque può bastare una crescita del Pil nominale del 2,5% per cominciare a ridurre «in automatico» il nostro pesante passivo. Per stabilizzare senza traumi e manovre draconiane il percorso di rientro dal debito, occorre però che si riprenda la strada di una crescita duratura e che il pareggio di bilancio si confermi negli anni a venire.

La strada delle ulteriori manovre correttive per stabilizzare i conti (che finiscono per deprimere ulteriormente il ciclo economico) appare quanto meno pericolosa con la pressione fiscale già ben oltre il 45% del Pil. Si rischia quell'«effetto avvitamento» denunciato da ultimo dalla Corte dei Conti.

I dati più recenti sul fronte del fabbisogno mostrano al momento la sostanziale tenuta dei conti: 29,1 miliardi, rispetto ai 43,9 miliardi del 2011. Si segnala il recupero sul fronte del gettito tributario (+2,5% nei primi cinque mesi dell'anno), in attesa che a fine agosto siano contabilizzati gli incassi dell'autoliquidazione.

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