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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 14:49.

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«Regolamentare le attività delle banche sui derivati». In Europa o negli Stati Uniti non troverete nessun banchiere centrale, esponente politico o economista che non sia d'accordo sulla necessità di porre un freno alle attività speculative degli istituti di credito. Peccato però che la realtà sia profondamente diversa e i tentativi di intervento a livello regolamentare intrapresi su entrambe le sponde dell'Atlantico dopo la crisi Lehman continuino a non andare al di là dei buoni propositi.

Più che le accuse (ancora da provare) lanciate in settimana a Deutsche Bank per non aver registrato perdite potenziali fino a 12 miliardi di euro, lo dimostra la montagna di derivati, potenzialmente esplosiva, sulla quale le banche continuano a sedersi.

Certo, le manipolazioni denunciate dall'ex analista di Deutsche Bank, Eric Ben-Artzi, risalgono al periodo 2007-2010, così come lo scoppio dell'«affaire Kerviel-SocGen» è datato gennaio 2008. Non è detto quindi che l'utilizzo di pratiche improprie sui derivati si sia protratto fino a tempi più recenti (anche se le maxi-perdite sofferte da Jp Morgan, tanto per citare un altro caso eclatante negli Stati Uniti, sono del 2012). Resta però il fatto che, a dispetto di ciò che ha insegnato la crisi, le attività delle banche europee sui contratti derivati non accennano a diminuire e sono ben superiori ai livelli pre-Lehman.

Il rapporto diffuso di recente da R&S Mediobanca ha tracciato una mappa accurata del rischio riportando i dati pubblicati nell'ultima semestrale dai 20 principali istituti di credito del Vecchio Continente: i derivati attivi sono pari a 5.942 miliardi di euro, vale a dire – tanto per fare un confronto con l'economia reale – qualcosa come il 50% del Pil dei Paesi presi in considerazione. Il problema, però, è che questo ammontare è sì leggermente al di sotto (-1,1%) di quello di fine 2011, ma è pur sempre di un terzo superiore ai 4.472 miliardi di derivati attivi che le banche esaminate avevano in pancia nel 2009.

Va detto che il panorama continentale è decisamente variegato: se i derivati attivi detenuti dalle due principali banche svizzere (Credit Suisse e Ubs) valgono oltre due volte il Pil della Confederazione elvetica (il 229%, per la precisione), quelli delle big italiane (Intesa Sanpaolo e UniCredit) raggiungono appena il 17% della ricchezza nazionale. Uno scarto per certi versi abissale, che dimostra il peso differente del sistema finanziario (e in particolare delle attività di trading effettuata delle banche) nell'economia dei diversi Paesi europei e che non necessariamente è una misura del rischio potenziale.

Se si vuole misurare quest'ultimo occorre piuttosto considerare il rapporto di grandezza rispetto ai mezzi propri della stessa banca. I derivati rappresentano per esempio oltre il 30% dell'attivo per le banche svizzere (addirittura il 41% in media), per due istituti britannici che hanno affrontato con alterne vicende la recente crisi finanziaria come Barclays e Rbs, e per la stessa Deutsche Bank (37,9%) finita nel mirino della Securities and Exchange Commission (Sec), mentre le tre big francesi oscillano fra il 20 e il 23%. E probabilmente ancora più illuminante è il confronto fra il valore degli stessi derivati e il patrimonio netto, che vede il gruppo tedesco al secondo posto in Europa dietro alla solo Credit Suisse con una «leva finanziaria» di 21,2 che si addice forse più a un hedge fund che a una banca tradizionale.

Non stupisce poi più di tanto rilevare che in entrambi casi le banche italiane e quelle spagnole si ritrovino a braccetto in fondo alla lista: l'attività in derivati e la leva di Intesa SanPaolo, UniCredit, Santander e Bbva, è limitata così come la percentuale di ricavi che queste traggono dall'attività di trading (dal 3,2% al 7,5% contro, per esempio, il 14% di Deutsche Bank e il 25% di Ubs). In fondo alla classifica del rischio e anche a quella della redditività, con buona pace di Basilea 3 e degli altri interventi regolamentari che si sono succeduti dallo scoppio del bubbone Lehman in avanti.

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