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Questo articolo è stato pubblicato il 08 febbraio 2013 alle ore 11:29.

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A fine luglio, quando lo spread era a 530 punti, 1 euro valeva 1,2 dollari. Oggi, quando lo spread è in area 300 punti, 1 euro vale 1,34 dollari, il 12% in più. Mentre nei giorni scorsi ha superato quota 1,37.

Secondo una recente analisi di Morgan Stanley ogni apprezzamento del 10% dell'euro equivale a una riduzione del PIl dell'Eurozona dello 0,5% e a una minor crescita degli utili societari del 3%. Dati che spiegano, senze mezze misure, che in questa fase di crisi economica globale la guerra delle valute in atto viene vinta da chi riesce a tenere il cambio più basso e ad attuare quelle svalutazioni competitive che gli italiani che erano al top della forma negli anni '70 ricordano bene.

Nelle ultime settimane sono scoppiate le polemiche contro il Giappone che ha fatto pressione sulla Bank of Japan (formalmente indipendente da ingerenze governative così come prevede lo statuto della Banca centrale europea) affinché iniettasse nuova liquidità sui mercati. La Bank oj Japan lo ha fatto e ha annuncianto anche il sostegno ai nuovi titoli europei del fondo Esm. In sostanza la Banca del Giappone sta contribuendo in modo determinante alla svalutazione dello yen (aumentandone la quantità in circolazione e quindi svalutandoli) e, in parte, alla contestuale rivalutazione dell'euro (acquistando divisa unica e quindi diminuendone il quantità in circolazione e valore) con uno sguardo compiacente da parte degli Stati Uniti.

La mossa della BoJ ha chiamato in causa anche la Germania, preoccupata per la corsa dell'euro degli ultimi mesi. Nei giorni scorsi è intervenuto anche il presidente della Francia, Francois Hollande, che ha lanciato l'allarme: «Non possiamo permetterci che l'euro fluttui in base agli umori del mercato. Bisogna porsi un obiettivo di cambio». A cui ha risposto indirettamente ieri, nel consueto direttivo Bce del primo giovedì del mese, il governatore Mario Draghi che ha affrontato tanto la questione Mps (era alla presidenza di Bankitalia quando l'istituto senese ha ricevuto un prestito da 2 miliardi) quanto quella della guerra delle valute in corso. «Il cambio attuale dell'euro riflette la valutazione media di lungo periodo». Lo stesso Draghi ha però indicato che «vigileremo sui cambi» perché la forza dell'euro da un lato è un segnale di fiducia sull'Eurozona, dall'altro «mette a rischio la ripresa».

Draghi non ha fornito soglie d'allarme ma ha detto che in caso di sopravvalutazione la Bce è pronta ad altre misure di allentamento. Quindi la Bce, tecnicamente, si è detta disponibile a tagliare i tassi sotto lo dello 0,75%, che già rappresenta il minimo di tutti i tempi.

Detto questo, è vero che un euro a 1,34 dollari è vicino, come dice Draghi, alla media di lungo periodo (media mobile dell'eur/usd a 10 anni si trova al momento a 1,3445) ma siamo così sicuri che questo cambio rifletta esattamente e in modo virtuoso la differenza tra l'economia europea e quella statunitense? La domanda trova ragione di fondo nel fatto che per statuto la Bce e la Fed statunitense non sono identiche. La Bce ha il compito di vigilare sull'inflazione (che deve restare sotto o al massimo entro il 2%) mentre la Fed oltre al controllo dei prezzi ha il compito di occuparsi anche di sostenere l'occupazione, e quindi la crescita. Per questo motivo, oltre ad agire sulla leva dei tassi, ha più cartucce da sparare: può in particolare monetizzare il debito stampando moneta acquistando titoli di Stato sul mercato primario, ponendosi quindi come prestatore di ultima istanza. Opzione, questa, che non rientra nella cassetta degli attrezzi della Bce.

Quindi, come sarebbe il cambio euro/dollaro se le due banche centrali avessero gli stessi poteri e se, in questa guerra delle valute dove vince chi svaluta di più il cambio, anche la Bce potesse stampare moneta?

«Secondo le nostre aspettative il fair value (valore corretto) dell'eur/usd è pari a 1,24. Nel caso la Bce fosse libera di stampare moneta il cambio euro/dollaro evidenzierebbe un forte calo in direzione del range 1,18-1,20», spiegano gli esperti di Ig markets che però difendono l'attuale linea della Bce: «Draghi deve continuare a mantenere l'indipendenza della Bce, non lasciandosi sopraffare dalle pressioni dei governi dei diversi Paesi di Eurolandia. Una banca centrale indipendente acquisisce reputazione e le sue politiche monetarie sono più credibili, avendo così' un effetto maggiore sui mercati finanziari. Le continue iniezioni di liquidità nel sistema da parte di Fed e BoJ rischiano di perdere efficacia sulla crescita ma alimentare solamente le pressioni inflazionistiche».

Secondo Matteo Paganini, analista valutario di Fxcm «da un punto di vista macroeconomico, la diatriba tra Draghi e Hollande è presto risolta. Il vincitore è il francese. Il fair value dell'euro/dollaro, che stando alla parità dei poteri d'acquisto risulta essere intorno a 1,17-1,18, a nostro parere dovrebbe risultare anche più basso. Questo a causa del fatto che le disomogeneità a livello strutturale (fiscale, di industria, finanziario e chi più ne ha più ne metta) esistenti nell'area euro possono essere risolte soltanto puntando allo sfruttamento della già debole domanda estera, dato il congelamento di quella interna, che rende difficile far ripartire le produzioni in maniera significativa. Fette di mercato che si stanno accaparrando gli altri, America in primis. Il fatto che la Banca centrale europea stia perseguendo una politica monetaria diversa rispetto a quanto stiano facendo le altre banche centrali che non seguono l'andamento della congiuntura per prendere le proprie decisioni a livello di politica monetaria, ovvero la Bank of England, la BoJ e la stessa Fed (che hanno raggiunto il floor sui tassi e stanno iniettando liquidità), sta condizionando pesantemente le quotazioni dell'euro/dollaro, che potrebbe continuare a provare delle salite, spinto dal fatto che le aspettative degli operatori non sono ancora girate a favore di un trend decrescente di euro».

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