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Questo articolo è stato pubblicato il 13 febbraio 2014 alle ore 07:47.
L'ultima modifica è del 18 febbraio 2014 alle ore 19:33.

Cosa è stato fatto finora per ridurre il divario tra Nord e Sud? A fronte degli squilibri in atto «la Commissione europea ha deciso lo scorso novembre di avviare una analisi dell'avanzo tedesco, in quanto eccessivo rispetto ai parametri monitorati nella procedura degli squilibri macroeconomici e potenziale fattore di pressione per l'area». In pratica la Germania registra surplus superiori al 6% del Pil da più di tre anni, e questo non è possibile secondo quanto previsto dalla regole sugli squilibri macroeconomici. Il report di Nomisma è scettico sui risultati: «È un'azione tardiva, che richiederà tempo e produrrà incerti risultati». Il comportamento dell'Ue, in sostanza, sarebbe stato fin qui miope, perché concentrato sull'associazione "esportatore-virtuoso, importatore-malato". «L'attenzione unilaterale dell'Europa sugli squilibri di segno negativo è derivata dalla tendenza a interpretare gli avanzi commerciali come univocamente rivelatori di condizioni virtuose, in contrapposizione alle dinamiche viziose sottostanti alle formazioni dei deficit. Non sempre è così. Surplus cronicamente elevati possono riflettere distorsioni nell'allocazione delle risorse e squilibri tra settori all'interno delle economie».

Nel frattempo, in attesa di azioni più concrete, cosa sta accadendo? Gli squilibri si stanno correggendo lentamente attraverso un processo di deflazione delle economie periferiche. Per la prima volta da quando esiste l'Eurozona la periferia sta generando, complice la crisi della domanda interna, un'inflazione inferiore rispetto alla Germania. Quindi in parole povere la periferia sta effettuando una "svalutazione competitiva intra-euro". Un aggiustamento automatico, conseguenza del fatto che non si può agire sulla leva del cambio ma lo si sta facendo sulla leva del lavoro adottando quella che viene chiamata "svalutazione interna". Un aggiustamento che tuttavia rappresenta una briciola rispetto alla "svalutazione competitivi intra-euro" adottata indirettamente dalla Germania nei primi 13 anni di euro quando l'Italia ha generato un'inflazione superiore del 25% rispetto a Berlino e Spagna e Grecia sono andate oltre il 40% (si tenga conto che nella logica dei tassi di cambio reali in un'area valutaria comune svaluta chi genera meno inflazione).

Il report di Nomisma pone parecchi dubbi sulle modalità del percorso di svalutazione interna. «Lo sforzo di aggiustamento è stato finora demandato esclusivamente ai Paesi periferici, affetti da deficit nelle partite correnti. Esso si è tradotto in forti contrazioni delle domande interne di tali economie, deterioramenti dei mercati del lavoro, peggioramento delle condizioni sociali. Un simile approccio ha trascurato le interdipendenze tra deficit e surplus, per cui ogni disavanzo esterno esiste e si amplia nel tempo perché viene finanziato dall'avanzo di qualche altra economia. Ciò è stato vero nel primo decennio di vita dell'euro, quando ai passivi crescenti dei Paesi periferici si è associato il rigonfiamento del surplus
della Germania, con il corrispondente deflusso di capitali tedeschi verso le economie deficitarie».

L'aggiustamento in atto si vede se si analizza il miglioramento del saldo delle partite correnti dei Paesi della periferia senza che quello della Germania soffra particolarmente perché, venuto in parte meno il mercato di sbocco interno, si sta concentrando sull'area dei Paesi emergenti. Ma al passo attuale - secondo Nomisma - l'aggiustamento rischia di essere troppo lento e doloroso, perché è proporzionale all'aumento del tasso di disoccupazione e quindi al depotenziamento della domanda interna.

«Il saldo delle partite correnti della Spagna è aumentato, in rapporto al Pil, di 10 punti percentuali tra il 2007 e il 2013, sei volte di più rispetto al miglioramento della bilancia italiana; ciò si è verificato in corrispondenza di una triplicazione del tasso di disoccupazione iberico (da 8,3 a 26,5%), a fronte del "solo" raddoppio (da 6,1 a 12,1%) di quello dell'Italia. I miglioramenti di competitività sono stati, pressoché ovunque, dovuti a labour shedding. A eccezione del caso della Grecia, il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) delle economie periferiche è diminuito non per riduzioni apprezzabili delle retribuzioni nominali, ma per gli aumenti di produttività conseguiti, tra il 2007 e il 2013, attraverso contrazioni dell'occupazione superiori alle pur forti flessioni della produzione».

Ma a questi ritmi, puntando su una minore inflazione e su un aumento del tasso di disoccupazione il percorso di aggiustamento rischia di essere pachidermico oltreché traumatico. «Con l'attuale differenziale inflazionistico occorrerebbero dai 12 ai 30 anni per conseguire un azzeramento del ritardo spagnolo». Senza dimenticare che il processo di disinflazione/deflazione in corso complica le cose (in Spagna l'inflazione è allo 0,2%, in Italia 0,7% mentre la Grecia è in deflazione da un anno e il Portogallo da 3 mesi a fronte del +1,1% dei prezzi in Germania). « In condizioni di deflazione, il risanamento finanziario diviene proibitivo».

E quindi l'Italia che deve fare per uscire da questo stagno? «L'Italia si distacca dall'esperienza delle altre economie. Mentre la dinamica del costo del lavoro per addetto è stata in linea con quelle di Spagna e Portogallo, l'andamento della produttività è risultato peggiore. Ciò ha riflesso una caduta dell'occupazione nel nostro Paese meno severa di quella registrata nelle altre economie. Se l'Italia avesse sperimentato in questi anni il tipo di aggiustamento della Spagna (calo dell'occupazione superiore alla flessione dell'output), risulterebbe oggi con un tasso di disoccupazione molto più elevato, nell'ordine del 20 anziché del 12 per cento».

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