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Questo articolo è stato pubblicato il 10 maggio 2014 alle ore 15:44.
L'ultima modifica è del 10 maggio 2014 alle ore 17:46.

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La minaccia principale per la competitività delle delle imprese italiane, e quindi per l'export, la crescita e l'occupazione, non arriva tanto dal costo del lavoro, «sempre meno importante». Ma piuttosto dalla insufficiente capacità di «innovare ed espandersi», complice delle dimensioni troppo piccole delle nostre imprese per competere sui mercati globali.

A dirlo, in un dietrofront insolito per un'istituzione che ha sempre chiesto tagli e flessibilità al mondo del lavoro, è il Fondo monetario internazionale, in un paper, uno studio a firma dell'economista Andrew Tiffin, che non riflette la posizione ufficiale del Fmi ma punta a «delineare alcune implicazioni per l'agenda di riforme strutturali delle autorità italiane».

La premessa del Fmi smonta l'architettura delle teorie tradizionali, che chiedono "lacrime e sangue" per i lavoratori. I costi d'impresa possono essere un "driver importante" per la competitività. Ma i modelli più avanzati del Fmi dicono che «l'aumento dei costi dei fattori produttivi in Italia non si è tradotto in un aumento equivalente dei prezzi relativi dei beni italiani, in parte a causa del ruolo delle importazioni a basso costo da Paesi a bassa inflazione».

È il mondo globale dell'iPhone, in cui le imprese trasformano sotto-prodotti importati, più che produrre da zero: il costo del lavoro è sparso sui mercati globali, il cambio forte può persino aiutare l'export rendendo l'import dei prodotti da trasformare meno caro. La miriade delle Pmi italiane specializzate nei macchinari, secondo il Fmi, hanno assicurato la tenuta relativa dell'export italiano nel contesto difficile della crisi grazie a "inventiva e agilità" e al meccanismo di reti di pmi e distretti industriali. Ma è un mondo che cambia velocemente e l'Italia non sembra stare al passo con i tempi.

La quota di mercato "aggiustata" dell'Italia, «anche se deludente, non è critica come potrebbe apparire a prima vista». Tuttavia «anche sui settori più innovativi e flessibili pesano gli impedimenti strutturali che hanno depresso la produttività italiana in senso più ampio». Secondo il paper Fmi, l'andamento della competitività delle imprese, spesso Pmi, che producono beni strumentali avanzati e che sono preponderati assieme ai settori tradizionali come il tessile, «è preoccupante» nonostante alcuni successi nell'agganciare settori ad alta crescita. «Potrebbero non essere più la fonte di forza che erano in passato», per rigidità, burocrazia ma anche per le loro ridotte dimensioni di fronte alla «natura mutevole della produzione globale, dove le imprese di maggiori dimensioni hanno più successo nell'imporre un brand globale, nel finanziarsi e nell'integrare un ciclo degli approvvigionamenti globale».

La ricetta suggerita dallo studio del Fmi è chiara: «C'è forse bisogno crescente di riforme strutturali». Che stimolino un altro settore, quello delle imprese ad alta innovazione scientifica come il farmaceutico o l'elettronica di alto livello. Riforme, poi, che rimuovano le barriere alla crescita di dimensioni d'imprese e incoraggiano gli investimenti dall'estero»: parole che evocano fusioni e acquisizioni, anche da compratori non italiani, di imprese spesso rimasto a conduzione familiare e non quotate in Borsa.

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