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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2014 alle ore 17:06.
L'ultima modifica è del 02 ottobre 2014 alle ore 23:40.

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Sul mercato del petrolio è scoppiata la guerra. Niente bombe, né carri armati: quelli ormai da tempo non riescono a smuovere le quotazioni del barile. Si tratta piuttosto di una guerra dei prezzi, ma i rischi non sono comunque da sottovalutare: molte economie emergenti – a cominciare dalla Russia – potrebbero finire a gambe all'aria, la deflazione che già preoccupa l'Europa potrebbe accentuarsi e persino gli Stati Uniti potrebbero subire qualche danno, se l'industria dello shale oil fosse costretta a frenare.

Ad aprire le ostilità è stata l'Arabia Saudita, che invece di tagliare la produzione di petrolio – un'azione che molti si aspettavano, con il Brent ai minimi da due anni (segui le quotazioni) – hanno scelto di tagliare il listino delle forniture di greggio ai clienti: i cosiddetti Official Selling Prices (Osp), che analisti e trader osservano sempre con grande attenzione. Una mossa evidentemente ostile nei confronti dei concorrenti (dentro e fuori dall'Opec) e che fa temere il ripetersi di quanto accadde nel 1986: il famigerato “oil crash”, provocato proprio dai sauditi, che per riconquistare quote di mercato non esitarono a schiantare il prezzo del barile fin sotto 10 dollari.

Non a caso la reazione alla notizia è stata violenta: il Brent ha perso più di 2 dollari, scendendo fino a 91,55 $/barile, il minimo da giugno 2012, mentre il Wti è andato sotto quota 90 $ per la prima volta da oltre un anno. Riyadh già da quattro mesi sta scontando il suo greggio, con un comportamento che ha spinto molti analisti a sospettare che la sua priorità sia difendere le quote di mercato, anche a costo di sacrificare i margini di profitto. Questa volta però il taglio ai listini è stato davvero pesante, soprattutto in Asia e soprattutto per le varietà più leggere di greggio, sempre più insidiate dalla concorrenza.

Gli avversari principali sono quelli di sempre: Iran e Iraq, che riforniscono in misura crescente la Cina e più in generale i Paesi asiatici. A questi si sono forse aggiunti anche gli Stati Uniti, che – a dispetto del divieto di esportare greggio, tuttora in vigore – stanno inviando all'estero un numero crescente di carichi. L'export americano ha superato 400mila barili al giorno in luglio, il quadruplo rispetto a un anno prima, e secondo Citigroup potrebbe arrivare a un milione di barili al giorno a metà 2015, con destinazioni che ora vanno ben al di là del Canada: il primo carico di greggio dell'Alaska ad essere esportato dal 2004 è partito nei giorni scorsi verso la Corea del Sud ed erano andati in Asia anche i condensati ce in giugno Washington aveva autorizzato all'export.

L'Arabia Saudita ha le spalle abbastanza forti per sopportare un'ulteriore caduta delle quotazioni del greggio. Ma altri Paesi stanno già tremando, a cominciare dalla Russia, dove la banca centrale sta già approntando un contingency plan per un'eventuale caduta del barile a 60 $, evento che sarebbe devastante per la sua economia. Qualche analista ipotizza che sia proprio Mosca il bersaglio principale di una strategia che Riyadh potrebbe aver concordato con gli Stati Uniti.

Ma se il petrolio dovesse restare per un periodo prolungato a 60-70 $/barile sarebbero guai seri anche per molte società petrolifere americane, soprattutto quelle attive nello shale oil o in altre attività costose come quelle offshore. Sarebbe inoltre una tragedia per il Venezuela, già vicino al default, e per molti Paesi produttori di petrolio del Medio Oriente e dell'Africa, che per sostenere i bilanci statali in molti casi hanno bisogno di quotazioni superiori a 100 dollari al barile.

twitter.com/SissiBellomo

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