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Questo articolo è stato pubblicato il 16 ottobre 2014 alle ore 07:43.
L'ultima modifica è del 16 ottobre 2014 alle ore 07:44.

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Il crollo delle quotazioni del petrolio rischia di fare male alle grandi banche prima ancora che ai produttori. Almeno in Occidente, molti di questi si sono infatti protetti dal rischio di ribassi di prezzo attraverso contratti derivati. Ma le operazioni di hedging hanno probabilmente lasciato col cerino in mano le controparti – spesso big del credito, come Jp Morgan o Goldman Sachs, oppure società di trading come Glencore, Vitol o Mercuria – che per minimizzare i danni ora hanno a disposizione un'unica possibile strategia: vendere petrolio. Che si tratti di barili fisici oppure di carta, poco importa.

L'effetto è comunque quello di aumentare la già fortissima pressione al ribasso sui mercati petroliferi. Secondo molti operatori sarebbe stata proprio una frenetica azione di ricopertura da parte delle banche a dare la spallata finale al Brent nella seduta di martedì, quando sul finale le vendite sono accelerate al punto da provocare un ribasso del 4,3%, la maggiore perdita giornaliera da oltre due anni.

Fino a poco tempo fa nessuno si aspettava che il petrolio potesse subire un tracollo così forte e soprattutto così rapido: in giugno le tensioni in Iraq e Libia avevano surriscaldato i prezzi, spingendo Brent e Wti rispettivamente a 115,71 e 107,73 dollari al barile, ma adesso il loro valore si è ridotto di un quarto ed è ai minimi dal 2010. Ieri il greggio europeo ha toccato 83,37 $ e quello statunitense 80,01 $.

I campanelli d'allarme per le banche stanno già suonando da qualche settimana, sempre più forti man mano che le quotazioni si avvicinavano a 85 dollari (soglia già sfondata al ribasso sia dal Brent che dal Wti). E stanno continuando a suonare ora che si punta inesorabilmente verso 80 e verso 75 $/barile. Tali soglie coincidono infatti con il prezzo di esercizio di migliaia di opzioni put, contratti che danno diritto a vendere, in questo caso petrolio. Queste opzioni stanno ora andando precipitosamente “in-the-money”: il prezzo di esercizio o strike price supera cioè il valore del sottostante. In parole povere, chi ha in mano il contratto rischia di perdere soldi. E perderne parecchi, se il petrolio continua a colare a picco.

Le compagnie petrolifere tipicamente si coprono dal rischio di caduta dei prezzi – o come si dice “fanno hedging” – vendendo a una banca o a un altro soggetto il petrolio che devono ancora estrarre a un prezzo bloccato. L'operazione avviene con un contratto derivato, dal cui rischio la banca stessa a sua volta si copre, di solito con strategie chiamate “delta hedging”, che per mantenere neutrale il portafoglio in pratica la obbligano a vendere il sottostante petrolio. Spesso si tratta di futures sul petrolio, ma può anche essere petrolio fisico: il risultato, in termini di pressioni sul prezzo del greggio, è lo stesso. Il periodo dell'anno contribuisce poi ad amplificare la portata del fenomeno, perché le opzioni sul petrolio più numerose e più scambiate sono quelle per dicembre, scadenza ormai pericolosamente vicina.

Tra le vittime dell'hedging c'è anche il Messico, uno dei pochi Paesi produttori di petrolio impegnati, a quanto si sappia, in questo tipo di operazioni. Il programma per il 2015, – che implicava la vendita anticipata di ben 180 milioni di barili a un prezzo di 80 $/bbl o più – era iniziato solo a settembre ed è stato completato per circa la metà, con perdite sicuramente già ingenti per le casse dello Stato e forse anche per le banche coinvolte, che secondo fonti del Financial Times sarebbero Citigroup, Jp Morgan e Bnp Paribas.

twitter.com/SissiBellomo

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