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Questo articolo è stato pubblicato il 14 gennaio 2015 alle ore 12:18.
L'ultima modifica è del 15 gennaio 2015 alle ore 10:42.
«La discesa del prezzo del petrolio in realtà non reputo sia negativo per i paesi importatori, anzi li favorisce. Il vero problema per l'Italia è che la caduta del prezzo dell'energia non è sufficiente a far ripartire un sistema in deflazione; viceversa, proprio in conseguenza a questo andamento del petrolio abbiamo privilegiato per esempio l'acquisto di titoli del settore dei consumi discrezionali a livello internazionale - spiega Gianluca Magazzini, specialista senior servizio consulenza portafogli di Banca Federico del Vecchio -. Non abbiamo puntato sull'Italia per il fatto che questo risparmio energetico, anche se favorevole, risulta marginale per un Paese che ha bisogno di grandi cambiamenti per competere nell'economia globale».
Secondo Riccardo Ambrosetti, presidente di Ambrosetti am Sim «per un Paese come l'Italia c'è un effettivo vantaggio in termini di costi, sia alla produzione che al consumo. Tuttavia, in un contesto quasi deflattivo come quello domestico attuale, la diminuzione di prezzo del petrolio solo in parte può generare quel vantaggio che si avrebbe in fasi economiche espansive. Il rischio valutato da molti commentatori è che anche questa discesa di prezzo vada a spingere il ciclo verso un percorso di diminuzione prezzi associato a minori vendite conseguente riduzione margini aziendali, aumento disoccupazione, diminuzione consumi, diminuzione ulteriore prezzi, nuovo aumento disoccupazione».
Perché quindi anche le Borse dei Paesi importatori soffrono il calo del petrolio? «La caduta del prezzo del petrolio non piace ai mercati finanziari per due motivi. In primo luogo, l'inflazione è già pericolosamente bassa e vederla scendere ulteriormente non è una buona notizia; inoltre, la discesa di petrolio ed altre materie prime viene interpretata come debolezza dell'economia mondiale - argomenta Marco Piersimoni, senior portfolio manager di pictet asset management. Certamente, i Paesi consumatori di petrolio, come l'Italia (sulla quale pesa il carico fiscale sui beni energetici), ne trarranno beneficio a livello economico, ma i mercati finanziari hanno in questo momento una lettura diversa. La turbolenza dei mercati è dovuta proprio al rischio che il calo dei prezzi delle materie prime (inflazione headline) possa mutare in una spirale deflazionistica vera e propria sul livello dei prezzi dei beni e delle attività finanziarie. Il meccanismo è quello delle aspettative: la discesa dei prezzi si insinua nelle attese di consumatori ed imprese, che differiscono i propri piani di spesa, dato il contesto di crescita economica globale non entusiasmante e di politica monetaria oramai vicina al capolinea. Questo è il rischio che i mercati stanno prezzando, ma in ultima istanza e con molti sobbalzi, a meno di cocenti delusioni di politica monetaria, pensiamo che prevarrà la lettura positiva per i Paesi consumatori».
«Quando si tratta di valutare l'impatto sui mercati finanziari per ora crediamo che il calo dei prezzi delle materie prime costituisca un fattore negativo anche al di là dei settori direttamente interessati - sottolinea Luca Gianelle di Russell Investments -. La ragione di questo punto di vista dipende dall'incertezza che circonda l'impatto di un grande movimento in un asset così importante: ci sono i cosiddetti effetti a catena che i mercati non possono analizzare né prevedere. Questi vanno da rischi geopolitici, rischi paese, rischi specifici delle impresa e dei rischi finanziari più in generale. Su quest'ultimo, in particolare, non sappiamo se ci siano operatori che abbiano esposizioni a leva e stiano subendo perdite importanti».
Per Francesco Previtera, responsabile equity research di Banca Akros Esn, prevalgono gli aspetti congiunturali. «C'è un effetto sulle valute che rafforza il dollaro e c'è un effetto macro che fa pensare ad una rischio di recessione in qunto a questi livelli paesi come la Cina dovrebbero iniziare acquisti massicci. Il settore dell'Oil è forse il principale settore per investimenti e questo ha un effetto sulla domanda a livello globale».
Costi e benefici per i Paesi importatori pressoché nulli per Claudia Segre, segretario Generale Assiom Forex: «Un crollo del prezzo del petrolio, dimezzatosi in 6 mesi ai minimi del 2009, ha colpito direttamente quei Paesi emergenti esportatori di petrolio che trainavano la crescita globale con livelli di Pil ben distanti alla debole situazione europea. Di conseguenza la revisione dei piani di sviluppo dell'industria petrolifera da un lato, le evidenti necessità di rivedere le strategie di coperture finanziari ed il ridimensionamento dei portafogli delle principali case energetiche alle prese con una revisione drastica dei piani industriali contribuiscono ad una riconferma di un quadro di decrescita globale così come configurato ieri dalla Banca Mondiale. Così i benefici per i Paesi importatori non sono sufficienti a tradursi in una spinta al Pil pari a coprire quanto perso sula lato dei Paesi produttori».
Non c’è il rischio che il calo del petrolio inneschi la spirale deflazionistica anche su altri beni di consumo?
«L'ipotesi di una deflazione globale mi pare al momento lontana dalla realtà . In Italia e nei paesi ad elevata disoccupazione, come ricordavo sopra, c'è il rischio che il circolo innescato sia negativo perché il risparmio energetico dei consumatori potrebbe non influenzare la loro domanda di beni e servizi non sostenendo quindi il prezzo di quest'ultimi e non permettendo di evitare una spirale disinflazionistica - aggiunte Tardino -. È importante dunque come più volte ripetuto in questi ultimi anni che si proceda con riforme strutturali importanti che combattano la disoccupazione mentre nel breve è auspicabile una politica monetaria ulteriormente espansiva. Nei paesi in cui la disoccupazione è bassa (Stati Uniti, Regno Unito, Germania per esempio) questo rischio, a mio giudizio, è invece molto basso ed in molti paesi emergenti l'inflazione è stabilmente lontana dallo zero».
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