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Questo articolo è stato pubblicato il 25 ottobre 2011 alle ore 09:03.

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Le riforme delle pensioni varate negli ultimi 15-20 anni hanno garantito la sostenibilità finanziaria del sistema. Ma è la sua «sostenibilità sociale» che potrebbe riservare brutte sorprese per il futuro. È la conclusione cui giunge il focus sull'Italia dell'ultimo rapporto Ocse sulla previdenza diffuso quest'estate (Ocse; pension at a glance 2011). «La situazione economica attuale e le caratteristiche del mercato del lavoro dove si assiste all'emergere di forme di precarietà nei contratti e nelle retribuzioni hanno il potenziale di ridurre i trattamenti pensionistici futuri per questi lavoratori» spiega l'economista Anna Cristina D'Addio, specialista di previdenza nella divisione welfare dell'organizzazione parigina.

Se oggi l'Italia è chiamata a rimettere mano al cantiere previdenziale ancora un volta per ragioni di finanza pubblica, questo non significa che non ci siano tante e buone ragioni di ordine previdenziale e di politica del lavoro per completare il percorso fatto fin qui. Nel 2010 l'Italia era il secondo Paese dell'area Ocse più anziano dal punto di vista demografico dopo il Giappone, con solo 2,6 persone in età lavorativa (20-64) per ogni cittadino over 65. Un contesto demografico destinato a perdurare, visto il basso tasso di natalità, e che da solo determina buona parte della spesa pensionistica (attorno al 15% del Pil contro una media Ocse del 7-8%).
Per questo sostenere che il nostro sistema è già stato «messo in sicurezza» non è più giustificato. Perché a prescindere dalle dinamiche future dell'economia, c'è una transizione demografica che ci penalizza e che è appena compensata dai flussi di immigrati per lavoro (dovrebbero essere 200mila l'anno secondo stime della Ragioneria). Che fare, allora? Per l'Ocse ma anche per molte altre think tank bisogna migliorare i tassi di partecipazione dei lavoratori di età superiore ai 60 anni.

Secondo gli analisti l'effetto combinato di una bassa età effettiva di uscita dal mercato del lavoro – che oggi oscilla intorno a 61 anni per gli uomini e a circa 59 anni per le donne - e di un'elevatala speranza di vita a quella stessa età sono all'origine della lunga durata attesa del pensionamento. I lavoratori italiani possono oggi aspettarsi di vivere circa 23 anni come pensionati e le donne più di 27 anni. Un arco di vita (passiva) tra i più lunghi, pari solo a quelli che si determineranno in Francia o in Lussemburgo, mentre in Paesi come il Portogallo e il Giappone si fermano su durate di pensionamento attorno ai venti anni. Dunque, se l'innalzamento del l'età lavorativa resta l'obiettivo fondamentale per garantire equilibri previdenziali accettabili per i lavoratori più giovani, il successo della riforma dipende dall'effettiva capacità di innalzare anche la partecipazione al lavoro dei più anziani (oltreché delle donne e dei giovani). E in questa prospettiva l'Italia ha ampi margini di recupero, visti i tassi di partecipazione relativamente bassi delle persone nella fascia di età 55-69 rispetto alla media Ocse.

Solo il 62% degli uomini che appartengono a questa coorte partecipa al mercato del lavoro, contro il 78% della media dei Paesi Ocse. E questa percentuale scende ulteriormente con il crescere dell'età: solo il 30% degli uomini di 60-64 anni e circa il 13% nella fascia di età 65-69 partecipa al mercato del lavoro rispetto al 54,5% e 29,3%, rispettivamente, delle medie Ocse.

Che cosa ci dicono queste percentuali è fin troppo chiaro: non basta completare il piano di riforme con ulteriori (e definitivi) aumenti dell'età pensionabile. Se alzare i requisiti anagrafici garantisce sulla carta un calo della spesa previdenziale, per far funzionare quest'ultimo miglio della riforma servono politiche attive per l'occupabilità degli over 55 e degli over 60. E lo stesso discorso vale per le donne, visto che per loro l'età media di pensionamento, nel periodo 2004-2009, è stata di 58 anni, contro i 64 anni di una lavoratrice americana o i 67 di una collega giapponese.
D. Col.

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