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Rischio rincari alla pompa. Che cosa succede se chiude il canale di Suez

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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2011 alle ore 06:38.

Forse il mondo ha rischiato, senza rendersene conto, di restare privo di una delle principali vie di transito dei traffici commerciali mondiali. Perché l'ipotesi di un canale di Suez chiuso – ventilata per vari giorni durante la recente rivolta egiziana, quando essa sembrava prossima una guerra civile per la resistenza dei miliziani filo-Mubarak – non è parsa affatto campata in aria ai mercati, che hanno mandato segnali eloquenti facendo rialzare le quotazioni del greggio di una decina di dollari: tra Porto Said e Suez transitano infatti ogni giorno oltre 2 milioni di barili.

Il canale egiziano non è peraltro nuovo a chiusure repentine e prolungate: accadde nell'inverno 1956-57, dopo il primo conflitto arabo-israeliano, e poi per otto anni dopo la "guerra dei 6 giorni", tra il 1967 e il '75. Con conseguenze rilevanti sui mercati energetici e sul commercio internazionale in genere, costringendo il petrolio diretto in Occidente, ma anche i flussi di prodotti dell'Estremo Oriente (allora soprattutto giapponesi e sud-coreani) al periplo dell'Africa. Il brivido per Suez – ammesso che il rischio-canale possa davvero ritenersi superato – ha riproposto l'attualità di un problema troppo spesso sottovalutato in Europa in tempi "normali": la geopolitica insegna che vi è una serie di snodi cruciali (Chokepoint, secondo la definizione americana) la cui chiusura (ma anche solo la minaccia di farlo) è in grado di condizionare l'economia dell'Occidente. O addirittura di arrestarla.

Gli articoli correlati evidenziano i sei casi più delicati e i relativi traffici e rischi connessi, ma ad essi se ne possono aggiungere anche altri, dallo stretto di Gibilterra che chiude a occidente il mar Mediterraneo, allo stretto che separa Cuba dalla Florida, allo stretto di Øresund tra Danimarca e Svezia, che sigilla ermeticamente il Mar Baltico, fino allo stretto di Corea che la separa dal Giappone.

La particolarità di questi Chokepoint è che si tratta di località facilmente ostruibili (per alcuni di essi basta affondare nel punto giusto alcune navi di una certa stazza per bloccarne totalmente la navigazione) o soggette a facili assalti anche con mezzi rudimentali (valgano per tutti l'attacco di al-Qaida, nell'ottobre 2000, al cacciatorpediniere americano "Cole", ancorato nel porto di Aden, o la recente cattura di due grandi petroliere nelle stesse acque). Ciò significa che sono minacciate tanto le rotte commerciali (intese come bene astratto per tutti i paesi che le utilizzano), quanto il valore vero e proprio di ciò che vi transita.

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Alcune cifre danno l'idea dei rischi in atto. Dai principali Chokepoint considerati lo scorso anno sono transitati non meno di 35 milioni di barili/giorno, di petrolio (su un totale di quasi 53 mb/g movimentati nel mondo): considerata una media di circa 82 dollari al barile tra Brent e Wti, si tratta di un valore di 2,87 miliardi di dollari al giorno, poco meno di 1.050 miliardi nell'intero anno.

Cifra colossale che però scompare di fronte di quella che riguarda il commercio globale mondiale. Secondo le stime del Wto, nel 2010 si è verificata una certa ripresa anche in valore (+9,5%) degli scambi internazionali, per un totale di 13.300 miliardi di dollari. Ebbene, poichè circa il 90% dei traffici planetari viaggia via mare, significa che poco meno di 12mila miliardi hanno solcato le acque del pianeta. Stimando un prudente 25% transitato per i Chokepoint (la maggior parte dei flussi riguarda sempre le due rive del Nord Atlantico e del Nord Pacifico), significa che comunque 3.000 miliardi di dollari sono passati per questi pericolosi "colli di bottiglia".

Si pone quindi la domanda-chiave di fondo: si può fare qualcosa per ridurre questi rischi? La risposta è: sì, almeno in parte. La prima precauzione, ovvia, è deviare per quanto possibile i traffici dai Chokepoint. Ma essendo naturalmente impossibile sposare in toto questo proposito, la soluzione più logica è trovare percorsi alternativi. E i progetti non mancano, anche a prescindere da considerazioni strategiche, al fine di trovare soluzioni più economiche, oltre che più sicure.

Per evitare lo stretto di Malacca, ad esempio, la Thailandia propone da tempo di tagliare l'istmo di Kra, nella penisola di Malacca con un canale di 44 km. La Cina, poi, sta finanziando la costruzione di due pipeline tra il porto birmano di Kyauk Phyu e la città di Kunming, del costo di 2 miliardi di dollari. Mentre per evitare il Canale di Panama (che sta scivolando sotto parziale controllo cinese) si torna a pensare a una via in Nicaragua o a un'altra ancora in Panama. Proprio mentre nei giorni scorsi la Cina ha lanciato il progetto di una ferrovia di 220 km in Colombia tra Cartagena e Cupica del costo di 7,6 miliardi di dollari.

I SEI CASI PIÙ A RISCHIO
Stretto di Hormuz
Bab El Mandeb
Canale di Suez
Stretto di Malacca
Canale di Panama
Bosforo-Dardanelli

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