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Questo articolo è stato pubblicato il 19 giugno 2011 alle ore 08:10.

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«Le intese devono valere per tutti»«Le intese devono valere per tutti»

«La porta del tempo che abbiamo attraversato negli ultimi tre anni mette la parola fine a una lunga stagione fatta di relazioni industriali intense e complicate come in nessun altro Paese, condizionate per anni dalla presenza del più grande partito comunista d'occidente, formatesi in un contesto culturale che dava lo sviluppo per scontato e l'equa distribuzione della ricchezza da conquistare tramite il conflitto.

Ne conseguiva addirittura la pretesa del controllo sociale sul potere di organizzazione dell'impresa. Un modello a cui la realtà ha poi risposto con diverse vendette: il lavoro sommerso, il nanismo produttivo come territorio senza sindacato, abnormi investimenti in tecnologie di processo a risparmio di lavoro che hanno prodotto bassi tassi di occupazione regolare anche nei momenti di crescita».

Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, parte da un orizzonte ampio per spiegare l'altra «vendetta della realtà» che s'è consumata in questi anni di crisi: la grande divisione tra i sindacati, come evidenzia «la seconda manifestazione generale organizzata dal primo sindacato italiano, senza la Cgil, emblematicamente di sabato, senza perdere un'ora di lavoro».

Cisl e Uil ancora una volta insieme, questa volta per chiedere una riforma fiscale in tempi certi.

Queste due organizzazioni insieme rappresentano senza dubbio il primo sindacato del Paese con la maggioranza tra i lavoratori iscritti. E sostenere che questa divisione è il frutto dell'iniziativa del governo è ridicolo e costituisce una grave offesa al sindacato riformista. L'unico che ha compreso che una lunga stagione è finita, che imprese e lavoratori sono sulla stessa barca e che devono condividere i modi di crescere e di distribuire i risultati.

Condizioni che partono da una rifondazione delle relazioni industriali?
Toccherà alle parti individuare il modo migliore e nuovo di relazionarsi per meglio favorire la produttività e solo con essa la crescita dei salari. Ci sono aziende capital intensive - e quindi a bassa intensità di lavoro - come quelle chimiche in cui il contratto nazionale può avere un ruolo maggiore rispetto a settori a più alta occupazione per i quali i contratti di prossimità possono essere più idonei al reciproco adattamento tra le parti. Quello che conta è far vincere la condivisione sul conflitto, il dialogo quotidiano, vissuto ogni giorno per aiutare le imprese a crescere dando valore alle persone nel lavoro.

I contratti di prossimità dovranno essere resi però esigibili.
Dobbiamo garantire alle parti l'efficacia verso tutti i lavoratori dei loro accordi senza subire i veti delle minoranze e gli scioperi selvaggi di pochi che fermano molti. Ma chi ha la responsabilità di condurre la fabbrica deve poter adeguare flessibilmente l'organizzazione della produzione e del lavoro e il sindacato maggioritario deve poter realizzare accordi su investimenti, occupazione e salari.

Ma che cosa deve contenere il contratto aziendale?
È proprio ciò che le parti, quando nei prossimi giorni si riuniranno, dovranno decidere chiedendo, se necessario, una legislazione di sostegno alla loro autonomia contrattuale. Credo debba regolare tutto ciò che riguarda l'organizzazione della produzione e del lavoro. Nel complesso deve emergere un modello flessibile, libero e responsabile, adatto anche a quella vasta realtà delle piccole imprese dove il sindacato non c'è. Qui, al più, possono essere utili accordi territoriali per la gestione del mercato del lavoro, dal ricollocamento degli esuberi alla certificazione dei contratti di lavoro per prevenire il contenzioso, all'arbitrato per i conflitti individuali, al servizio per ambienti di lavoro sicuri, all'assistenza per le attività formative. E soprattutto la possibilità di detassare i salari in conseguenza di accordi per la maggiore produttività.


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