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Questo articolo è stato pubblicato il 03 giugno 2012 alle ore 11:59.

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Mettere in sicurezza il territorio italiano si può. La strada indicata dal ministro dell'Ambiente Corrado Clini, che ha parlato di un piano che guardi a un orizzonte di 15 anni, non è una di quelle idee che nascono nell'emergenza e con l'emergenza si spengono. Si può davvero fare, a costi quasi sempre ragionevoli, e per la maggior parte del patrimonio edilizio del nostro Paese. Certo, se l'Italia è in qualche modo tutta a rischio sismico, si tratterà di identificare dove intervenire prima e, anche, quanto intervenire. Ma gli esperti di non hanno dubbi.

«Il principio generale è che il costo per mettere in sicurezza un edificio esistente è certamente molto più basso di quello per ricostruirlo», enuncia il professor Alessandro De Stefano, del Dipartimento di Ingegneria strutturale, edile e geotecnica del Politecnico di Torino, che è anche consulente istituzionale del servizio sismico regionale del Piemonte e che ha una lunga esperienza in fatto di studi sui danni prodotti dai terremoti, a partire da quello del Friuli del 1976.
«Dal punto di vista tecnico siamo assolutamente pronti. Oggi disponiamo di metodi che quarant'anni fa non avevamo, possiamo fare interventi più precisi, compatibili con l'esistente e meno estesi», aggiunge Stefano Dalla Torre, docente di Conservazione e valorizzazione del patrimonio storico e architettonico al Politecnico di Milano, «Il fatto è che c'è una grossa distanza tra la punta avanzata della ricerca, le possibilità che abbiamo, e la scelta di fare davvero questi interventi».

I motivi sono molti. Uno è che la situazione per molti Comuni è cambiata drasticamente nel 2003 quando è stata creata dal carta del rischio sismico che ha fatto entrare molte zone del Paese tra quelle in cui sarebbero necessarie costruzioni capaci di resistere a una scossa più o meno forte. Ma senza l'obbligo di realizzare questi adeguamenti, pochi si sono mossi, forse nessuno. Ecco perché, per esempio, i capannoni emiliani costruiti prima di quella data e progettati senza calcolare il rischio sismico sono crollati.
«Dai terremoti bisogna imparare e anziché proporre di fare tutto o nulla si dovrebbe creare una gradualità degli interventi, magari fornendo degli incentivi, come per le ristrutturazioni», sostiene Marco Di Prisco, direttore del Dipartimento di ingegneria strutturale del Politecnico milanese, specializzato nella progettazione di strutture prefabbricate. E un piano per questi interventi, fa notare Dalla Torre, «aldilà di chi poi dovrebbe sostenere i costi, potrebbe attivare ricadute positive, economiche e sociali, mettendo in campo tecnici qualificati e aziende specializzate che in Italia esistono».

Le tecniche ci sono, i costi sono spesso sostenibili (anche se una stima generale è assai difficile, e le cifre andrebbero calcolate caso per caso o quasi), in più non è detto che si debba sempre fare tutto. Spesso, dice De Stefano, può essere sufficiente "alzare l'asticella", attuare interventi che non elimino qualunque rischio di crollo, ma riducano i possibili danni. «Si può anche isolare completamente un edificio dal suolo con un sistema sofisticato che dissipi l'energia», racconta Dalla Torre, «Ma non è indispensabile». «Se un edificio non crolla e resta in piedi, anche se subisce dei danni potrà essere sistemato con spese molto minori», chiarisce De Stefano, «E, cosa ancora più importante, si saranno evitate vittime». Il principio vale quasi per ogni tipo di intervento, da quelli sugli edifici storici o semplicemente vecchi, a quelli sui palazzi moderni in cemento armato (che possono risultare i più difficili da affrontare), fino alle strutture industriali e ai capannoni che oggi sono al centro dell'attenzione.

I capannoni
Mettere in sicurezza un prefabbricato già esistente è abbastanza semplice. Non c'è nessun bisogni di abbatterlo per ricostruirlo meglio. Il concetto fondamentale è quello di "legare" la struttura. «Il punto è che i capannoni che sono crollati non erano, come è stato detto e scritto, castelli di carta. Le strutture prefabbricate sono tra quelle che hanno migliore qualità e durata», sostiene Di Prisco. Però se sono progettate e costruite per resistere soprattutto a sollecitazioni verticali, come quelle del peso, e non a spinte orizzontali, come quelle delle scosse di un terremoto, la loro resistenza a questi eventi è molto limitata. Per questo sono cadute le lastre di copertura dei tetti, i pannelli laterali che, spiega De Stefano, probabilmente erano stati vincolati in modo fragile.

La soluzione è fare in modo che i vari pezzi siano tenuti insieme, siano "legati", appunto. Si può fare per le fondazioni, con travi di collegamento o intere "plateee", cioè una sorta di pavimento sotterraneo; si può e si deve fare tra i pilastri e le travi, fissandoli gli uni a gli altri, e tra le travi e le pannelli di copertura. Si possono usare tasselli chimici, barre metalliche, comunque sistemi piuttosto facili da applicare. Creare un pacco unico, spiega De Stefano, protegge moltissimo.
Per queste strutture come per tutti gli edifici sarebbe poi utile capire anche il tipo di terreno su cui poggiano, perché questo gioca un ruolo fondamentale nella trasmissione dell'onda sismica: può attenuarla, ma può anche amplificarla. E non è vero, come quasi tutti pensiamo, che un terreno alluvionale come quello della Pianura padana sia un vantaggio rispetto alla roccia. «Dipende», dice Di Prisco, «perché un cuscinetto di terreno può entrare in risonanza con le strutture costruite sopra. E poi conta la direzione in cui si propaga l'onda sismica».

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