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Questo articolo è stato pubblicato il 22 dicembre 2013 alle ore 08:28.

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Un'ondata di norme con ricadute rilevanti sul mercato e in larga parte imprevedibili, alcune delle quali nemmeno messe in conto dagli stessi legislatori. Appaiono così, agli addetti ai lavori, le tante novità normative che si sono affacciate negli ultimi dieci giorni. La più imponente è la web tax, che ora impatta solo sul mercato della pubblicità online (c'era anche l'ecommerce nella prima versione). Chiede a chi la compra di rivolgersi solo ad aziende con partita Iva italiana e si rivolge non solo ai siti come Google ma anche a centri media e intermediari. Lo scopo è aumentare la tassabilità delle piattaforme estere. La prima conseguenza sicura però è gettare incertezza tra le aziende. Anche ammesso che i big come Google e Facebook, che fatturano 500 e 20 milioni di euro in pubblicità online in Italia, si vogliano adeguare, «ci impiegheranno mesi: nel frattempo le aziende italiane non sapranno se potranno comprare legalmente pubblicità online da loro», dice Guido Scorza, avvocato esperto di questi temi. La norma non prevede sanzioni, ma il rischio per le aziende è comunque di finire in una controversia fiscale se pagano fatture non associate a una partita Iva italiana.
Altra incertezza. «Uno dei due commi dice che questa norma si applica solo a pubblicità visibile dal territorio italiano. Il legislatore sembra così voler escludere le aziende italiane che comprano pubblicità per un mercato straniero, ma non si tiene conto che i contenuti internet sono visibili da tutti gli utenti a meno di specifici filtri attivati dal sito», dice Scorza. Di conseguenza, o il sito fa in modo di offrire la pubblicità solo agli indirizzi Ip non italiani oppure dovrà fatturare a parte – su partita Iva italiana – i clic fatti da utenti italiani.
Una certa confusione, insomma, perché la legge applica di peso le norme territoriali del mondo fisico al business digitale. «La conseguenza più immediata è il blocco delle decine di migliaia di startup che comprano visibilità su circuiti internazionali privi di partita Iva italiana», dice Andrea Rangone, a capo degli Osservatori Ict del Politecnico di Milano. «Temo che non potremo pubblicizzare su siti americani o brasiliani la nostra nuova app Pubcoder – dice Paolo Giovine, startupper –. Oppure dovremo ingegnarci con intermediari esteri, che comprino pubblicità al posto nostro; stando però bene attenti a fatturare questo servizio come consulenza e non come intermediazione pubblicitaria. È anche possibile che siano le stesse piattaforme straniere a chiedere alle aziende italiane di fare in questo modo, per aggirare la web tax». Complicazioni, insomma, che possono frenare la spesa pubblicitaria. Ancor più grande sarebbe l'impatto se i big decidessero di smettere di vendere pubblicità di aziende italiane: «Sarebbe un grave danno per tutte quelle che grazie ai network internazionali possono far conoscere i propri prodotti, a costi accessibili anche alle piccole realtà», dice Layla Pavone, presidente onorario di Iab Italia.

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