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Ora l'economia dell'Eurozona sa reagire meglio agli choc

di Antonio Pollio Salimbeni

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5 ottobre 2007

Bruxelles - Nonostante sia scattato l'allarme per l'euro super, ci si preoccupi per la durata del rallentamento americano e delle conseguenze a medio-lungo termine della restrizione del credito, non è sostanzialmente cambiato il quadro delle previsioni per l'anno in corso per l'eurozona: pil al 2,5% quest'anno, e attorno al 2,2% l'anno prossimo (Consensus Forecasts settembre). Finora, dunque, l'eurozona ha dimostrato di saper fronteggiare il deterioramento dell'economia americana e gli effetti di contagio della crisi subprime. A parte che circa due terzi degli scambi dei paesi avvengono all'interno dell'area, che le esportazioni in Russia, Asia ed Europa centro-orientale sono superiori a quelle in terra americana, e che il fenomeno subprime ha preso piede solo nel Regno Unito, esistono altre cause strutturali che hanno nettamente migliorato la capacità dell'eurozona di adattarsi e reagire agli choc economici. La Commissione europea ne vede essenzialmente tre: aspettative di inflazione stabili e bassi tassi di interesse in termini reali hanno sostenuto la domanda interna; la forte ripresa dell'occupazione, la maggiore flessibilità nell'offerta di lavoro e la persistente moderazione salariale hanno sostenuto la crescita del reddito disponibile delle famiglie; il consolidamento dei bilanci pubblici, sia pure ancora insufficiente, ha garantito lo spazio per interventi anticiclici (investimenti pubblici) durante i periodi di rallentamento della crescita. Tali fattori vengono considerati permanenti, fatta eccezione oggi per l'orientamento di politica monetaria. Nell'ultimo rapporto trimestrale sull'eurozona, la direzione generale Affari economici ha analizzato le differenze emerse tra eurozona e Stati Uniti negli ultimi quattro cicli di forte rallentamento, i tempi e le modalità della ripresa: ultimo trimestre 1973, primo trimestre 1980, quarto trimestre 1991, quarto trimestre 2000. Ne emerge un quadro confortante. Anche se le fasi di ripresa dell'economia eurozona sono sempre risultate più lente e a valori più bassi rispetto a quanto accaduto oltre Atlantico rivelando una debolezza, complessivamente la volatilità della crescita anno per anno è diminuita grazie a cambiamenti strutturali (migliore gestione degli stock di magazzino, espansione dei servizi, investimenti nelle costruzioni residenziali). Ciò rende gli choc negativi "meno dirompenti che in passato". Inoltre, ecco la seconda novità, nel 2000-2001, gli investimenti delle imprese (equipaggiamenti industriali e costruzioni non residenziali) e l'occupazione se la sono cavata meglio rispetto agli anni '80 e '90. La terza novità è data dal miglioramento dei bilanci pubblici: grazie agli aggiustamenti compiuti, la politica di bilancio nell'eurozona è stata meno pro-ciclica durante l'ultima recessione di quanto sia stata negli anni '80 e '90. Gli investimenti pubblici sono calati dal 3,2% rispetto al pil nel 1991 al 2,6% nel 1995, mentre nei primi anni di questo decennio la quota sul prodotto è rimasta stabile. Sull'altro piatto della bilancia ci sono almeno due punti deboli. Il primo riguarda i consumi: anche nell'ultima fase recessiva sono stati colpiti più a lungo nell'eurozona. Al contrario di quanto avvenuto negli Usa da noi non si sono ancora raggiunti pienamente i livelli di allora. Il secondo riguarda la produttività totale dei fattori, che tiene conto di progresso tecnologico, istruzione, qualità delle infrastrutture, efficienza organizzativa. Dal 2001 l'economia americana si riprende più velocemente perché questo indicatore ha un profilo più alto. Quanto alla flessibilità dell'economia è certo che ha un impatto sul potenziale di crescita, meno chiari sono gli effetti sulla capacità di reazione agli choc.

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