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La doppia anima della Brigata Sassari

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 febbraio 2011 alle ore 06:39.

La Prima guerra mondiale fu per gli italiani, da appena mezzo secolo riuniti in nazione, un momento forte di riunificazione e di acquisizione di un'identità nazionale. Per gli italiani tutti, ma non per i sardi, per cui fu paradossalmente, accanto a questo, anche il suo opposto, cioè il momento della costruzione di un'identità particolare, separata: quella sarda, appunto. Un'identità che nasce nelle trincee della guerra, in una brigata composta quasi esclusivamente di sardi, la Brigata Sassari, un'istituzione divenuta rapidamente mitica e destinata ad essere rappresentata come l'immagine simbolica della stessa Sardegna, la sua espressione in armi.

Dalle menzioni ufficiali alle cronache giornalistiche, dalle memorie di guerra alle prese di posizione dei politici, il mito della Brigata Sassari e del suo valore straordinario si affermò già nei primi mesi della guerra e si perpetuò nel dopoguerra alimentando spinte politiche e ideologiche di diverso genere e fin opposte, dalla retorica nazionalistica e fascista alle spinte autonomiste, all'immagine di una «nazione abortiva», per dirla con il maggior esponente del sardismo, Camillo Bellieni, anch'egli un "sassarino". Ed è ancora dall'esperienza della Brigata Sassari che deriva, nel dopoguerra, il movimento combattentistico sardo, che sarà poi all'origine della nascita del Partito sardo d'azione e quindi dell'autonomismo sardo: sardismo che a sua volta, perpetuando questa dicotomia fra identità nazionale e sardità, non divenne mai, neppure nei decenni successivi, separatismo come nell'altra grande isola italiana, la Sicilia, ma si caratterizzò come volontà di autonomia e rivendicazione di anomalia e singolarità.

Di quest'anomalia, su cui la storiografia si è a lungo spesa e che ha rappresentato una delle costanti della riflessione degli intellettuali sardi, la Brigata Sassari rappresentò così un momento fondante e altamente significativo. Se si eccettuano le brigate alpine, si trattava dell'unica brigata dell'esercito italiano a base esclusivamente regionale, almeno per i soldati. Creata nel 1915 dall'unione di due reggimenti - il primo di stanza a Sassari, il secondo a Cagliari - che comprendevano truppe quasi esclusivamente sarde, fu riorganizzata facendovi confluire i soldati sardi dagli altri fronti dopo essere stata quasi completamente distrutta in combattimento, meritandosi alti elogi per il suo valor militare (e, caso eccezionale, una citazione del nome della brigata).

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Anche così, nonostante il suo esser rapidamente divenuta il simbolo dell'eroica partecipazione alla guerra dei sardi, la brigata non radunò tutti i soldati dell'isola. La percentuale dei "sassarini" nell'insieme di tutti i caduti sardi della guerra fu infatti soltanto di uno su sei. Inoltre, essa comprese anche alcuni ufficiali non sardi, sia pur rapidamente "sardizzati". Era composta al 95% da pastori e contadini, come la popolazione sarda da cui proveniva. Pochi i borghesi e gli studenti, interventisti all'origine, estremamente capillare la leva, da cui furono esenti «soltanto i ciechi», un fatto evidentemente legato all'assenza di operai impiegati nelle industrie essenziali. Forte il legame tra soldati e ufficiali, facilitato dal fatto che altrettanto scarso era nella società sarda lo scarto tra la piccola e media borghesia e contadini e pastori.

Nella brigata si parlava sardo, si riproponevano danze e canti regionali, si andava all'attacco non al grido usuale di «Savoia» ma a quello di «Avanti, Sardegna». La Brigata Sassari si distinse particolarmente per il suo valor militare, caratterizzato dall'arcaismo del modo di combattere, estremamente individualistico, dal largo spazio che vi ebbe il carisma di alcuni ufficiali particolarmente valorosi e vicini ai soldati, dagli attacchi arditissimi alle trincee, e non ultimo da una decisa ferocia nei combattimenti. Non a caso, nella rotta di Caporetto, la Sassari fu tra i pochi corpi a mantenersi compatto e a non disgregarsi.

Il risultato di queste azioni guerresche particolarmente audaci fu che la brigata divenne rapidamente il fiore all'occhiello dell'esercito, finendo per assumere una dimensione mitica in cui il valore guerriero si univa alla caratterizzazione regionale, alla sardità, non senza qualche sfumatura di razzismo da parte dei non sardi. Il più famoso dei suoi ufficiali, il più amato dalle truppe, decorato ben quattro volte al valor militare, fu Emilio Lussu, che avrebbe poi narrato la guerra della Brigata Sassari nel suo Un anno sull'altipiano, dove accanto alle caratteristiche che stiamo delineando emergono anche le ribellioni della truppa agli ordini ingiusti e inutili, il senso di una guerra che, anche se non apparteneva ai sardi, andava comunque portata avanti nel modo migliore, per mostrarsi "balenti", uomini di "balentia".

Ed è dalla Brigata Sassari, dai suoi soldati, che nel dopoguerra si formano in Sardegna gruppi di ex combattenti assai diversi da quelli che nel resto d'Italia esprimeranno nell'adesione al fascismo le frustrazioni inflitte loro alla pace, il mancato riconoscimento da parte di chi non aveva combattuto. Nei gruppi di combattenti sardi costituitisi nell'isola si esprimono tensioni verso la giustizia sociale che sfociano nel Partito sardo d'azione e nel sardismo: un percorso che punta sull'autonomia, che esalta le particolarità sociali e culturali dell'isola, ma che al tempo stesso si ricollega alle correnti politiche più generali, al fascismo, al socialismo, all'idea rivoluzionaria. Sono gli anni, questi, in cui uno dei suoi ufficiali, divenuto uno dei leader del Partito, Camillo Bellieni, chiedeva lo scioglimento della brigata, impiegata in missioni di ordine pubblico, perché si trattava di un impiego che la disonorava.

Una parte del Partito sardo d'azione confluirà nel fascismo, un'altra, con Lussu, nell'antifascismo militante, portato avanti durante la dittatura con lo stesso amore del rischio che aveva contraddistinto la sua guerra, dalla difesa armata da un'aggressione squadrista che lo portò a uccidere un giovane fascista a Cagliari, nel 1926, alla fuga dal confino di Lipari, nel 1929, con Nitti e Carlo Rosselli.

La storia successiva è quella di un progressivo avvicinamento della Sardegna al paese, senza perdere tuttavia i fondamenti dell'anomalia sarda: vaste sacche di arretratezza, un banditismo che trovava salde radici nel passato, e al tempo stesso un'élite assai rappresentata nella vita politica italiana, fino a esprimere, tra l'altro, oltre a un Gramsci, che vive tuttavia in Sardegna solo i suoi anni giovanili, ben due presidenti della Repubblica, Segni e Cossiga, e politici come i Berlinguer; e infine, un ceto intellettuale di primo piano e in grado di coniugare la sardità con l'impegno e l'integrazione nell'Italia tutta. Un intreccio, insomma, assai particolare tra appartenenza sarda e italianità.

Iniziato così con la leva di massa dei sardi nel 1915, questo processo di costruzione identitaria resta in molto modi peculiare e specifico, tanto che è tuttora a quegli anni e a quegli eventi che guardano quanti s'interrogano, sia in campo storico che politico, sul complesso rapporto tra l'isola e il "continente".

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