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Questo articolo è stato pubblicato il 09 marzo 2011 alle ore 06:39.

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Scapigliati, eroici e pronti all'incendioScapigliati, eroici e pronti all'incendio

Un bel giorno Arrigo Boito, non ancora il musicista famoso ma un giovanotto trapiantato a Milano dalla natia Padova, entrò in un'aula di anatomia, si sedette sui banchi e guardò e ascoltò ciò che faceva e diceva il professore intento a sezionare un cadavere. Ne trasse un ricordo indimenticabile che lo rafforzò nel suo amore per i deboli e gli umili, nel disgusto per l'umanità impietosa e per la scienza trionfante del suo tempo, trionfante e presuntuosa. E siccome era un artista, fece la cronaca di quello spettacolo in una canzonetta, Lezione di anatomia, caratteristica del suo tempo e piena di motivi che ancora oggi la rendono suggestiva:

La sala è lugubre; / dal negro tetto / discende l'alba, / sul freddo letto / con luce scialba. | Chi dorme? Un'etica / defunta ieri / all'ospedale... / Ed era giovane! / ed era bionda! / ed era bella!... / Mentre urla il medico / la sua lezione / io penso ai teneri / casi passati / su quella testa, / ai sogni estatici / invan sognati / da quella mesta. / E ora il clinico, / che il cor le svelle, / grida ed esorta: «Ecco le valvole, / ecco le celle, / ecco l'aorta. / Scienza, vattene, | coi tuoi conforti! / Ridammi i mondi |del sogno l'anima!

Un altro bel giorno parte e va a visitare il Museo Egizio di Torino. Ne torna con un'altra poesia in tasca, un inno alla povera mummia nata al sole e ai profumi del deserto e ora messa in vetrina nell'aria gelida del Nord solo per appagare gli stupori della folla e la curiosità e l'erudizione dell'archeologo che scruta i segni tracciati sulle bende di quel corpo che pur chiudeva un'anima.

Né molto diversi i pensieri davanti al busto monco e senza testa di una Venere, che ebbe anch'esso una storia da quando il suo marmo fu staccato dalle pendici di un'isola greca ove gustava le dolci stagioni e le luci del mar Mediterraneo, fino a questo secolo che raglia fatto di gente prosaica, di arti bolse e, somma sventura, di restauratori.

Compreso il macabro, compreso l'ira, questa poesia era propria a Milano in quegli anni - la seconda metà dell'Ottocento. Il capoluogo lombardo, ancora fresco della gloria delle Cinque Giornate e nel guado di trasformazioni profonde, era teatro delle prime contestazioni politiche, economiche e sociali. Un'allegra e tristissima brigata di artisti del quartiere di Brera inalberava l'insegna della Scapigliatura, l'equivalente della bohème d'oltralpe. Movimento non solo strettamente lombardo, tuttavia si sviluppò significativamente proprio nelle regioni industrializzate Piemonte e Lombardia; un po' confuso come spesso in questi casi ma con un'intensa e convinta ricerca innovativa non soltanto in letteratura.

Cletto Arrighi, che fu uno di loro, in un suo scritto del 1862 in cui fra l'altro conia anche il nome del movimento, La Scapigliatura e il 6 febbraio, riassumeva il programma esistenziale di quanti, d'ogni ceto, d'ogni professione (ci sono anche pittori come Tranquillo Cremona, Luigi Conconi, Domenico Ranzoni), d'ogni condizione (ci sono anche nobili come Carlo Pisani Dossi e deputati di lungo corso come Giovanni Faldella), si riconoscevano nell'anima del gruppo. Ossia un modo in ogni caso e in ogni forma eccentrico e "disordinato", geniale nel vivere e nell'operare, impaziente del chiuso dell'Italietta borghese.

Sintomi e prodotti anch'essi dei disagi e degli inciampi che incontra la nuova nazione; sintomi e prodotti delle lacerazioni che provocano i molti squilibri, la revisione di valori costituiti e fondamentali nelle antiche monarchie, la ricerca dei nuovi assetti per le istituzioni, per la politica e per la produzione economica, per i nuovi modi di vivere non più campestri e per i vari tessuti anche fisici degli agglomerati urbani in espansione. Nel centro cittadino corsi, viali, palazzi aristocratici; in periferia caseggiati ove «in alto, sui lunghi ballatoi, ci stavano degli operai, dei facchini, dei manovali della ferrovia; al pianterreno, degli ortolani, dei contadini, dei lavandai; e fra queste due plebi diverse, un po' di borghesia stenta, qualche impiegato dell'ufficio daziario, un conduttore, qualche macchinista» (Roberto Sacchetti, 1879). In un capitolo di Cento anni (1857, poi 1869), il patriarca di tutti questi giovanotti Giuseppe Rovani scriveva che se la superficie della società milanese, a metà del secolo, poteva apparire accesa e viva, era non per florida salute ma per una «febbre critica». I brividi della modernità.

Biograficamente cittadini di questa "topaia" tortuosa e opprimente, gli Scapigliati sognano magari la campagna grande nella sua purezza, ma è soprattutto questa metropoli che sollecita le riflessioni del movimento e costituisce l'area in cui penetrano la loro estetica e la loro sociologia. Questi letterari sono anche un fatto di costume e caratterizzano anche in questo Milano a quell'epoca. Ma in verità non soltanto allora, se una Milano della lingera è sopravvissuta anche all'epoca industriale («lingera voce dialettale di area lombarda = gentaglia - carnevale - sfaccendato - vagabondo - squattrinato - scapestrato»).

Ancora nel suo ultimo romanzo Milano è una selva oscura Laura Pariani può parlare di lingera per il suo eroe e per il suo mondo sommerso. Ancora i primi decenni del secondo dopoguerra, in cui il romanzo è ambientato, scorrono nel chiaroscuro - ma più l'ombra - dei Navigli e di piazza del Duomo, degli atrî delle stazioni e delle aule del Palazzo di giustizia, dell'alta moda e del dialetto, quest'altro elemento portante del tessuto e della letteratura lombarda.

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