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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2011 alle ore 07:54.

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Nel corso della sua storia, il nostro paese ha affrontato e vinto sfide decisive, come nel secondo dopoguerra quando riuscì a riemergere dalle macerie del conflitto mondiale o negli anni Settanta con la lotta allo stragismo e al terrorismo. Anche questa volta ce la potremo fare, contando sulle nostre energie migliori, ma a una condizione: che operi nuovamente «un forte cemento nazionale unitario, non eroso e dissolto da cieche partigianerie, da perdite diffuse del senso del limite e della responsabilità».

Giorgio Napolitano è giunto alla conclusione del suo appassionato discorso alle Camere riunite per celebrare il centocinquantenario dell'unità nazionale, quando traccia la strada, l'unica che giudica percorribile: ritrovare quella coesione nazionale che finora è mancata. «Non so quando e come ciò accadrà. Confido che accada. Convinciamoci tutti, nel profondo, che questa è ormai la condizione della salvezza comune, del comune progresso». L'aula lo applaude a lungo, a sorpresa dai banchi si leva un accenno di inno nazionale. Pochissimi i parlamentari leghisti presenti, mentre nei banchi del governo siedono come annunciato Umberto Bossi, Roberto Calderoli e Roberto Maroni. «Non so quanti fossero, chiedete a loro», risponde Napolitano ai giornalisti che sollecitano un suo commento a proposito dell'atteggiamento della Lega. Al termine della cerimonia, incontro nella sala del governo con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, i presidenti Renato Schifani e Gianfranco Fini.

La cerimonia ha inizio alle 16,30 con Fini che definisce le celebrazioni del centocinquantenario «un preciso dovere civile di tutti gli italiani». Poi Schifani, che ricorda come l'idea di nazione e di Europa «si sostengano reciprocamente». Napolitano si rivolge direttamente ai cittadini, agli insegnanti, ai «tanti soggetti pubblici e privati» che hanno raccolto l'appello a celebrare l'anniversario, in particolare i piccoli comuni, «fulcro dell'autogoverno democratico e di ogni assetto autonomistico». Orgoglio e fiducia: ecco quel che occorre. Per evitare «l'orrore della retorica» non vi è che affidarsi all'evidenza dei fatti. Il primo punto fermo: la mancata risoluzione della questione meridionale è li a dimostrare che quel percorso unitario non si è ancora compiuto pienamente. Non per questo si può negare la portata storica dell'unificazione, «per le condizioni in cui si svolse, per i caratteri e la portata che assunse, per il successo che la coronò superando le previsioni di molti e premiando le speranze più audaci».

Se così non fosse stato, l'Italia sarebbe ai margini della storia e della modernità. In poche parole, nulla «può oscurare il dato fondamentale dello storico balzo in avanti che la nascita del nostro Stato nazionale rappresentò per l'insieme degli italiani». Napolitano rilegge Mazzini che nel 1845 parlò di otto stati divisi senza bandiera, nome politico e voce tra le nazioni d'Europa. Poi l'appassionata e puntale ricostruzione dei principali eventi che culminarono nell'epopea risorgimentale, sotto la guida di Mazzini, Cavour, Garibaldi, Cattaneo. «Una formidabile galleria di ingegni e di personalità». Si trattò di un'«opera ciclopica», scrisse Gaetano Salvemini. Entriamo nel Novecento, con il dramma della guerra mondiale, il ventennio fascista, e nuovamente il riscatto, la resistenza, la liberazione e la nascita della Repubblica sotto il segno della Costituzione. Napolitano cita l'articolo 5 della Carta che nel fissare il principio assoluto dell'unità e indivisibilità del paese, riconosce in pieno il ruolo delle autonomie locali. E non è un caso - sottolinea - che «l'unica rilevante riforma» della Costituzione decisa finora sia stata quella del titolo V. Il punto di arrivo del federalismo è il rafforzamento dell'unità nazionale, «non il suo contrario».

Per questo occorre porre al centro «delle nostre preoccupazioni» il divario tra Nord e Sud. È tempo di una profonda riflessione critica, di «un esame di coscienza collettivo», cui nessuno può sottrarsi. Al pari dell'altra grande questione, quella sociale, soprattutto per quel che riguarda le prospettive di occupazione «per una parte rilevante delle giovani generazioni». Ecco alcune delle grandi sfide che ci attendono. Occorre «grande spirito di sacrificio e slancio innovativo», come quando «con intelligenza, moderazione e capacità di mediazione» si affrontò il conflitto con la Chiesa cattolica . Il «forte cemento unitario» emerso nelle prove più difficili sarebbe stato impensabile senza quella identità nazionale condivisa, scolpita nella Carta del 1948».

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