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Questo articolo è stato pubblicato il 13 marzo 2011 alle ore 08:20.

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Fare l'Italia? È una parolaFare l'Italia? È una parola

Qual è stata la parola del 2010? Per «Time» vuvuzela (ma al decimo posto c'è bunga bunga); per l'American Dialect Society, app (abbreviazione che indica le applications di smartphone e palmari); per la Gesellschaft für deutsche Sprache, Wutbürger "cittadino arrabbiato"; per il Festival du mot, dette "debito"; per i lettori del Corriere.it, futurismo. Un ritorno al futuro, quello promosso da Fini e dal suo gruppo, visto che il Manifesto del futurismo è stato pubblicato da Marinetti nel 1909. E proprio come parola dell'anno 1909, futurismo è entrata nell'Itabolario curato da Massimo Arcangeli: un originale vocabolario a più mani che cerca di ricostruire 150 anni di Italia unita attraverso «150 voci-chiave: una per ciascuno degli anni compresi fra il 1861 e il 2010».

Solo in alcuni casi l'anno scelto è quello in cui la parola è attestata la prima volta in italiano. Anche futurismo è parola «nata nella prima metà dell'Ottocento e ripeteva gli -ismi della seconda metà di quel secolo». Quelli schedati qui sono verismo (abbinata al 1879, anno in cui esce Giacinta di Capuana); trasformismo (1882, quando Depretis realizza «uno dei primi ribaltoni dell'Italia moderna, il primo dell'Italia unita»); socialismo (1892, anno di fondazione del Partito dei Lavoratori italiani); femminismo (1896: prima apparizione nel periodico «La vita italiana») e modernismo (1907, data dell'enciclica di Pio X Pascendi Dominici gregis); poi – oltre a fascismo (1919) – anche qualunquismo (1945), neorealismo (1948) e relativismo (2005).

Nella scelta delle parole si mescolano – come si vede – politica, cultura, costume. (A confermarlo anche l'indice dei nomi, in cui Mastroianni risulta citato quanto Moro e poco meno di Garibaldi e Pasolini; Sordi quanto Gramsci e Cavour e poco più di Manzoni). Così, per avere un'idea di com'è cambiato nel tempo l'atteggiamento dei giovani, si possono mettere a confronto le voci Contestazione (1968: tra gli slogan, «Una risata vi seppellirà»), Movimento (1977: «Luciano è Lama/rijuana dei popoli»), Pantera (1990: «Né con lo stato / né con le Pi Erre») e Onda (2008 «Meglio bionda che brunetta»); oppure leggere in sequenza i lemmi Blue-jeans (1956), Hippy (1967), Fast food (1982), Facebook (2010).

Se ne ricaverà che: 1) i giovani sembrano essere in Italia un'invenzione del secondo dopoguerra; 2) mentre le ondate di protesta si richiamano l'un l'altra e si affievoliscono nel tempo, gli stili di vita cambiano rapidamente e forse più radicalmente; 3) il modello della protesta è antiamericano, quello della vita filoamericano.

D'altra parte, delle 150 parole scelte da Arcangeli per definire la storia e il carattere degli italiani, quasi un quinto sono straniere. Soprattutto francesi fino agli anni Cinquanta (da chic, 1873, a festival, 1951); poi quasi tutte angloamericane, con punte – negli ultimi trent'anni – di quattro o cinque per decennio. L'apporto complessivo aumenta fino a un terzo del totale se si tiene conto dei vocaboli di origine straniera mimetizzati in italiano. Appartengono a questa categoria anche parole che oggi sentiamo italianissime come arrangiarsi (1877, definito dal Lessico dell'infima e corrotta italianità «verbo francioso de' dialetti cisalpini»), o associamo a realtà italianissime come funicolare (1880, da machine funiculaire). E lo stesso vale per altri francesismi come moda (1875), cinematografo (1898), metropolitana (1955) o per parole modellate sull'inglese come guerra fredda (1962) e minigonna (1966). «Italiani, boicottate le parole straniere», esortava la propaganda fascista: peccato che la stessa boicottaggio (1888) derivi – attraverso il francese boycottage – dall'inglese to boycott, a sua volta dal capitano Charles Cunningham Boycott, «tirannico amministratore delle tenute della contea irlandese di Mayo».

È di origine straniera anche globalizzazione, che nel 2007 «compare in media una volta al giorno nei più diffusi quotidiani italiani»: parola simbolo di un'epoca aperta dalla perestrojka (1986) e segnata dalla new age (1987), da internet (1995), dagli sms (1996), dai kamikaze (2001) e dallo tsunami (2004). Ma la globalizzazione è una sorte toccata anche ad alcune parole italiane. Tra le più diffuse nel mondo c'è espresso (1918), che risuona – con piccoli aggiustamenti – fino in Lituania, in Islanda, in Egitto, in Etiopia e da ultimo, «sotto spoglie formali "multinazionalmente" modificate», nel marchio Nespresso®. Poi anche pizza (1889), ciao (1874) e – ahinoi – mafia (1865): tutte voci di origine dialettale che, prima di diventare internazionali, hanno conquistato gli italiani solo in anni relativamente recenti. Basti l'esempio di ciao (dal veneziano s-ciavo "schiavo"): oggi è attestato in 32 milioni di pagine internet americane, in due milioni di pagine tedesche e più o meno altrettante russe; ma ancora nel 1982, l'allora presidente dell'Accademia della Crusca Giovanni Nencioni (classe 1911) scriveva: «non mi è mai venuto fatto di pronunciare la parola ciao e nel commiato confidenziale continuo ad usare addio».

Erano in origine dialettali anche i romaneschi pizzardone (1871) e burino (1908) o il napoletano fesso (1920). «Oggi signore e studentesse dicono, senza rossore né consapevolezza, fesso» – scriveva nel '39 il filologo Giorgio Pasquali – «al tempo che io ero scolaro, a Roma verso il 900, fesso attirava un ceffone dalle mani paterne», perché portava ancora con sé l'originario significato sessuale. Né ci si può stupire del grande contributo venuto al lessico italiano dai dialetti, se si tiene conto che fino a non molto tempo fa era proprio il dialetto la lingua parlata dalla maggioranza degli italiani. Nell'anno della sua nascita, il 75% della neonata nazione (1861) era analfabeta e non più del 10% era in grado di parlare la lingua nazionale; ancora nel 1951 oltre il 63% dichiarava di parlare soltanto in dialetto, e solo dal 1982 più della metà dice di parlare abitualmente in italiano (o anche in italiano).

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