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Questo articolo è stato pubblicato il 11 marzo 2011 alle ore 06:40.

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L'uomo che vide il paese che non c'eraL'uomo che vide il paese che non c'era

La vicenda narrata si svolge nel 1748-49, un secolo prima della tragica rivoluzione: non è avventato pensare che lo scarto temporale serva a depistare gli arcigni censori austriaci e a rendere plausibile la disamina di un'esperienza che tormenta l'autore e vale «a provare che ogni virtù non diserta il mondo, per quanto perverso, né le anime quantunque corrotte», per di più presentandosi esemplarmente «come transizione al secolo presente». La ribellione che Celio e i suoi compagni preparano nel 1748 per rendere l'autonomia alle province sottomesse della Dominante vede unirsi alla interessata nobiltà terriera «quella setta filosofica nella quale cominciavano a sobbollire le altre fazioni avverse agli ordini sammarchini», senza elaborare obiettivi condivisi.

Per un verso, Nievo sottolinea la profonda divisione tra i ribelli che mina l'efficacia dell'azione, per l'altro mette al centro il complesso e imprescindibile rapporto che resiste tra il generoso desiderio di cambiamento e rinnovamento e l'antica tradizione civile della Serenissima, anche al di là dei segnali di decadenza e degli atteggiamenti di chiusura conservatrice della classe dirigente, cosicché Venezia, la sua storia, le sue istituzioni, si rivelano un saldo punto di riferimento anche per i novatori più determinati.

Nell'agosto del '49, quando sul ponte sventolò la bandiera bianca degli insorti, tramontò il sogno di un gruppo che si era illuso di resuscitare la Serenissima al grido di "Viva San Marco!", mentre la città precipitava per la seconda volta in servitù, incapace di agganciarsi a quel grande disegno unitario che rappresentava il traguardo di autentica modernizzazione della penisola.

La rivoluzione si era da sé capovolta in restaurazione e il moderno si era ribellato fino al punto di diventare strumento di distruzione della stessa città per la prima volta bombardata dall'alto con palloni aerostatici e abbandonata a un ingrato destino di isolamento.
Nievo ha in testa tutt'altro sviluppo della storia e, negli anni in cui sugli spalti della fortezza mantovana di Belfiore muoiono i martiri patrioti, insiste sulla necessità di ricucire le ferite che l'incoscienza rivoluzionaria ha prodotto e continua a produrre nell'identità italiana, che lui immagina conquistata nel tempo lungo di una vicenda millenaria e quindi fortemente segnata dalla presenza della Repubblica.

Quel che bisogna perseguire non è né la restaurazione, né la rivoluzione, ma una metamorfosi, che trasformi la nobile eredità della storia nelle fondamenta e nel patrimonio di una nazione libera e unita.
Da qui, da quest'idea di trasformazione, prenderanno avvio le Confessioni di un italiano, che, cominciano con queste parole: «Io nacqui veneziano... e morrò per grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo». Sono trascorsi tre anni dalla stesura di Angelo di bontà e il disegno civile e politico di Nievo si è chiarito, tanto da sostenere il racconto compiuto di un'esperienza che ha inizio prima della caduta della Serenissima e, attraverso avventure giacobine e napoleoniche, restaurazioni asburgiche, congiure e rivoluzioni fallite, «si slancia nel futuro degli uomini» prossimo e possibile, fissando e definendo le pietre miliari che indicano la strada nuova.

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