CENTOCINQUANT'ANNI D'ITALIA

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Nelle contrade del Bel Paese dove il sì suona

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 dicembre 2010 alle ore 15:00.

Non è solo per antiretorica che bisognerebbe partire dal formaggio. Non è solo per evitare un registro stucchevolmente celebrativo che il viaggio cui il Sole 24 Ore invita i lettori – un giro d'Italia in venti tappe, per i 150 anni di spaziotempo della nostra storia unitaria – dovrebbe muovere dal prodotto lanciato da Egidio Galbani nel 1906: il Bel Paese. Un nome che era, allora, tutta una memoria e tutto un programma.
Era tutta una memoria, perché molti italiani avevano quell'espressione nelle orecchie senza che ancora riuscisse (come riesce adesso) vagamente ironica, o apertamente sarcastica. Il «bel paese là dove ‘l sì suona» cantato da Dante nella Divina Commedia; il «bel paese ch'Appennin parte, e ‘l mar circonda et l'Alpe» cantato da Petrarca nel Canzoniere: secoli prima che un industriale caseario ne facesse un brand, il Bel Paese era l'immagine cui i padri della nostra letteratura avevano fatto ricorso per dire l'Italia. Un'Italia instabile, divisa, lacerata quanto si vuole. Eppure, già nel Trecento, un'Italia che poteva sembrare unita dalla lingua e dalla natura.

Ma a inizio Novecento il Bel Paese era anche tutto un programma, perché se nel frattempo l'Italia era stata fatta, gli italiani restavano in gran parte da fare. Nel 1861, l'Unità non aveva trasformato per incanto un coacervo di contadini piemontesi o sardi, siciliani o veneti, liguri o pugliesi, lucani o lombardi, calabresi o toscani, in un popolo di italiani. L'unificazione politica e amministrativa, lo sviluppo delle ferrovie, la creazione di un mercato nazionale, la scuola elementare laica gratuita e obbligatoria, la coscrizione militare: altrettanti strumenti di una «nazionalizzazione delle masse» che avrà bisogno, per realizzarsi compiutamente, di decenni ancora di investimenti e di sforzi. E del sangue di due immense tragedie, le guerre mondiali.
Poco dopo l'Unità un geologo lombardo, l'abate Antonio Stoppani, aveva scritto un libro fortunatissimo – cinquanta edizioni dal 1873 alla Grande Guerra – che si intitolava Il bel paese. Per strizzare l'occhio al passato, riecheggiando Dante e Petrarca, ma anche per propiziare un futuro: per spingere gli ex sudditi degli antichi Stati italiani a riconoscersi nelle meraviglie del nuovo regno unificato sotto lo scettro dei Savoia. Costruito come un giro d'Italia regione per regione, da un tesoro artistico a una bellezza paesaggistica, quello era il libro che aveva ispirato l'imprenditore Galbani per il battesimo del suo formaggio. Tre anni dopo, nel 1909, la «Gazzetta dello Sport» organizzava il primo Giro d'Italia di ciclismo: un'altra forma non tanto di scoperta, quanto di costruzione del Bel Paese.

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Sono, questi, eventi piccoli o piccolissimi, note a piè di pagina nel gran libro della Storia con la esse maiuscola. Ma sono eventi che valgono a ricordarci come il 150º anniversario dell'Unità rappresenti – insieme – un compleanno vero e un compleanno finto. L'anniversario si applica alla nascita dello Stato italiano, non alla nascita della nazione: come nazione, l'Italia è insieme più vecchia e più giovane di così. È più vecchia, nella misura in cui un'"italianità" esisteva da secoli prima del 1861, ben oltre la sfera della letteratura. Era un certo modo di fare politica; erano certe maniere di mangiare, di commerciare, di vestirsi; era una certa idea di Dio, della santità, della pietà.
E tuttavia, l'Italia come nazione è più giovane dei suoi centocinquanta anni. Non è nata davvero prima del 1915-18, cioè prima che i contadini delle sue regioni storiche si ritrovassero insieme all'inferno: nella bolgia dantesca delle trincee, sulle Dolomiti e sul Carso. D'altronde, dopo Vittorio Veneto, mezzo secolo ancora sarebbe occorso all'Italia per "nazionalizzare" tutti i suoi uomini (e tutte le sue donne): a colpi di regime fascista, di Resistenza, di televisione, di scuola media unica, o di quant'altro. Né l'operazione risulta pienamente compiuta ai nostri giorni. Lo dimostrano le fortune politiche di leghe del Nord e partiti del Sud. E lo dimostrano le fortune di un discorso oggi diffuso sui limiti della nostra identità nazionale: discorso spesso confuso, ma fiero di proporsi e smanioso di imporsi come "anti-italiano".

Così, un giro a tappe nel 150º anniversario dell'Italia unita ha bisogno di essere qualcosa di diverso da una celebrazione rituale. Ha bisogno di guardare all'Italia, e al valore della sua storia unitaria, come a un bene tanto più prezioso in quanto l'abbiamo conquistato a fatica, e dobbiamo tenercelo stretto. Il giro avrà senso proprio in quanto non darà per scontata l'esistenza, dal 1861 a oggi, di un'Italia «una e indivisibile». Ogni nazione (sostenne il francese Renan in una memorabile conferenza del 1882) è «un plebiscito di tutti i giorni». Senza esaurirsi in un'identità etnica o linguistica, religiosa o geografica, ogni nazione si nutre di una volontà di stare insieme fatta di tradizioni antropologiche, memorie spirituali, appartenenze politiche, che le sfide del presente mettono continuamente alla prova.
Questa volontà di stare insieme, le venti regioni che compongono l'Italia l'hanno dimostrata nel tempo. E continuano a dimostrarla, se è vero che il secessionismo – di là dal folklore mediatico – resta (per fortuna) un tabù della nostra agenda politica. Può dunque riuscire utile identificare, su una linea del tempo compresa fra l'Unità e oggi, venti situazioni esemplari in cui il plebiscito di tutti i giorni abbia assunto simbolicamente l'aspetto di un «sì» pronunciato da una regione verso la nazione. Venti «occasioni» (secondo il gergo poetico di Eugenio Montale) in cui un singolo pezzo d'Italia, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia e dal Friuli Venezia Giulia alla Sardegna, ha portato la sua pietra all'edificio comune.

Non che le regioni abbiano avuto vita facile, durante i centocinquanta anni di storia dell'Italia unita. Nel 1861, la necessità politica di cancellare la memoria degli antichi Stati spinse le classi dirigenti del nuovo Regno a non riconoscere loro che un significato puramente statistico. E anche dopo il 1948, sebbene la Repubblica avesse integrato le regioni nella propria architettura costituzionale, il loro statuto politico è rimasto virtuale per decenni, mentre uno statuto culturale ha faticato a emergere. «Regioni castelli-in-aria», le definiva beffardo Gaetano Salvemini; oltre che «figliuole senza dote», cioè senza risorse finanziarie autonome, sino a un tempo vicino al nostro.
È toccato all'Italia migliore del Novecento riflettere sulle virtù di un regionalismo che non corrispondesse a sterili nostalgie del «piccolo è bello», meno che mai a un separatismo fondato sul rifiuto della diversità. Che abbracciasse, piuttosto, un'idea di federalismo come gioco di integrazioni anziché di contrapposizioni, fattore di unione anziché di divisione. È toccato all'Italia migliore – l'Italia di Piero Gobetti, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio – ereditare dalla lezione ottocentesca di Carlo Cattaneo l'ideale di una sovranità il più possibile decentrata e di una democrazia il più possibile partecipata: le regioni come tante belle "repubblichette", a formare un bel "repubblicone"...
Ecco l'ideale di un autogoverno dei popoli che non si restringa entro il limite, insieme minimo e massimo, dello Stato nazionale: quello stesso ideale che permise a Cattaneo di sognare sia gli Stati Uniti d'Italia, sia gli Stati Uniti d'Europa. Centocinquanta anni dopo, il Bel Paese del terzo millennio può farne una bussola per il suo futuro.

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