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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 07:08.

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Insegna cinema a New York, scrive su Repubblica, produce documentari, organizza festival letterari e di cinema sia in Italia che a Manhattan, ha pubblicato saggi e romanzi. È famoso in Italia per dei famosi pranzi della domenica a casa sua, frequentati da giganti americani come Philip Roth, Martin Scorsese, Meryl Streep, e dagli italiani di passaggio. È tramite Monda che, per esempio, Sorrentino conosce David Byrne e lo fa recitare nel suo film americano – in cui Monda fa un cameo seduto su una panchina di Central Park.

Compare anche all'inizio di Le avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson, dove ospita Bill Murray-Zissou a un festival. È il campione italiano del networking culturale: un tipo di eccellenza poco apprezzata dalla classe intellettuale italiana. Lo intervisto nel suo studio alla New York University, su Broadway, tra Village ed East Village. Il corridoio è pieno di poster di film, sembra più una casa di produzione che un dipartimento universitario. La stanza è piccola, c'è una targa con una frase di Churchill: «Never Never Never Quit». Cinquantenne ragazzino, un'educazione nelle scuole cattoliche maschili e in una storica famiglia democristiana, Monda ha ancora l'aria da studente: porta pantaloni a coste lisi, il lembo destro del colletto della camicia gli cade sempre sotto il collo del maglioncino a rombi. Con candore mi racconta le regole del networking e la storia un po' Sergio Leone un po' Visconti con cui ha realizzato il sogno americano.

MONDA
Frequento gli Stati Uniti dal 1979, anno in cui mia madre mi regalò un viaggio dopo la maturità. C'era il presidente Carter. Ci ho passato due mesi: un mese e venticinque giorni in California, che non apprezzai affatto, e gli ultimi cinque giorni a New York, che mi hanno folgorato. Sono arrivato qui in un albergo che non c'è più e che ora è diventato il Peninsula, in un pomeriggio dei primi di ottobre: il tempo perfetto, al tramonto, ma erano già accesi i grattacieli quindi c'era quella combinazione che qui chiamano magic hours, e io rimasi incantato, e un tassista che mi portava dall'aeroporto all'albergo capì la mia emozione e mi disse: «Benvenuto nel cuore del mondo». Poi sono tornato l'anno successivo, già ero studente universitario, con due miei amici, e passammo altri due mesi. Studiavo legge. Io sono laureato in legge, perché sono figlio di un avvocato. Ho perso mio padre quando avevo quindici anni e l'unica promessa che mi fece fare mia madre era di prendere una laurea possibilmente in quella direzione lì. Mi sono laureato abbastanza mediocremente, 100 su 110, già lavoravo come assistente alla regia nel cinema e mi ricordo che di notte giravo un film come assistente e di giorno andai a laurearmi. Mentre studiavo ritornai a New York per due mesi, un altro viaggio, non più regalo ma sempre finanziato da mia madre. Dopo due settimane finii tutti i soldi e cominciai a fare dei lavoretti, e questa è stata una caratteristica che mi son portato tanto nella vita, improvvisare lavori. Ho fatto l'imbianchino, per esempio. L'imbianchino è stato il più catastroficamente comico perché mi hanno licenziato dopo tre giorni, non ero capace, però questo mi ha insegnato che in America si possono trovare lavori.

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