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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2010 alle ore 14:04.
L'ultima modifica è del 19 maggio 2010 alle ore 17:42.

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Make a change ha già una serie di clienti a cui ha proposto questo tipo di assistenza. C'è il gigante assicurativo che sta studiando la microassicurazione per immigrati e meno abbienti; l'azienda di servizi aereoportuali che intende mettere su un call center per lavoratori non normodotati; la municipalizzata che sta studiando percorsi utili per disabili. Azioni a finalità sociale in contesti perfettamente profit. Nulla che fuoriesca dal perimetro solito dell'azienda, niente che sia catalogabile come caritatevole. «Nessuna elemosina: spesso la social responsability declinata dalle imprese italiane è un maquillage buonista. Noi parliamo di business a finalità sociale. Abbiamo l'ambizione di realizzare una vera ibridazione».

La quarta via. C'è in realtà una quarta via, che va oltre l'ibridazione del profit, partendo da zero. È l'impresa sociale in sè, quella esistente e regolata per legge (la 118/05) - di cui discuteremo (criticamente) in altra occasione - sino alle sue possibili evoluzioni come le Community Interest Company inglesi o le Low profit americane, che a differenza del contesto italiano consentono la remunerazione del capitale, in misura più o meno limitata. In quest'ambito Make a Change ha selezionato 12 casi di eccellenza in Italia, da studiare, migliorare, proporre a modello. «Si va dalla gestione degli sprechi nei supermercati, a servizi per i minori maltrattati, a esperienze di housing sociale - continua Rapaccini - . Queste esperienza vanno messe in rete». E molte sono anche imprese di inclusione sociale: «Vorremmo proporre casi in cui sia possibile riqualificare i drop out per costruire nuove attività». L'impresa sociale come saving company. Rapaccini si è tolto un peso, a quanto pare.

Margini di miglioramento. L'impresa sociale, di cui parla Make a change, è in Italia un serbatoio ancora inespresso. Concettualmente si tratta di ribaltare il fattore profitto nel prodotto finale, di renderlo mezzo e non fine, assicurando che l'obiettivo dell'impresa consista nella ricaduta sociale dell'agire imprenditoriale sul benessere comune. Tema controverso, ovvio, almeno dai tempi di Adam Smith (e ci sarà modo di tornarci). Quel che è certo è che la legge italiana, come nel resto del mondo, ha dato un profilo alla natura di impresa sociale e ai suoi benefici. Ma soprattutto ne ha allargato il perimetro ad ambiti innovativi. Da associazioni che operano nel settore socio-assistenziale, le imprese sociali si sono estese all'ambito della gestione culturale, del turismo, della formazione, dell'istruzione, della ricerca. Si tratta di 15mila imprese che, con 35mila addetti, hanno un giro d'affari di 10miliardi di euro e interessano 10 milioni di utenti. Ma se si considera il nuovo e più largo perimetro tracciato dalla legge, esistono in realtà 500mila aziende che in Italia potrebbero trasformarsi "a rigore di legge" in imprese sociali in senso stretto, dando lavoro a 1,5 milione di addetti (pari all'8,1% dell'occupazione totale). Se i numeri non ci ingannano questo vuol dire che il futuro dell'impresa sociale non sta nel not for profit, ma in un profit orientato socialmente. L'idea è proprio quella di Make a change. Che per far passare questa idea ha indetto un concorso. Nome: «Il migliore lavoro del mondo». Bando e finalità sul sito.

L'altra economia è una rubrica che racconta i personaggi e i temi dell'economia not for profit. Potete segnalare casi a voi noti all'indirizzo e-mail francesco.gaeta@ilsole24ore.com

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