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Questo articolo è stato pubblicato il 07 aprile 2011 alle ore 18:02.

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Il Portogallo è la terza vittima della lunga saga della crisi dei debiti sovrani dell'eurozona. Un esito comune ma con cause molto diverse tra loro. Secondo Luca Cazzulani, economista di Unicredit il Portogallo si è arreso quando si è reso conto che non poteva continuare a rivolgersi al mercato ai tassi proibitivi a cui era arrivato, livelli più alti di quelli dei T-bill greci. Le casse vuote (secondo fonti di mercato londinesi ci sarebbero meno di 3 miliardi a disposizione del Tesoro lusitano) hanno costretto Lisbona a chiedere aiuto alla Ue e all'Fmi.

Ma come si è giunti a questo finale? Il problema di Lisbona è la crescita, o meglio la mancata crescita del Pil dovuta all'erosione continua di competitività. Lisbona è periferica perché da anni la sua economia è diventata tale non reggendo il passo con l'economia leader del Continente, la Germania. Salari troppo alti rispetto alla produttività hanno messo fuori mercato i pochi prodotti portoghesi, infrastrutture insufficienti, istruzione inadeguata, lassimo, sprechi, selezione della classe politica per nepotismo e non per merito. Quando l'economia non cresce le entrate fiscali languono e i conti pubblici saltano. A quel punto le tensioni sul debito portoghese sono diventate insostenibili dopo le dimissioni del premier Socrates in seguito alla bocciatura in aula delle misure di austerità. La resa di Lisbona di fronte a scadenze sul debito, che non è più in grado di onorare, è stata determinata dalla mancanza di coraggio politico sufficiente a varare le riforme strutturali di cui il paese necessita da anni. Una medicina amara che avrebbe dovuto essere presa senza dover arrivare al salvataggio.

Il caso greco. La crisi dell'eurozona comincia proprio dalla Grecia il 19 ottobre 2010, il giorno in cui la nazionale di calcio di Atene guadagna il diritto a partecipare ai mondiali di calcio sudafricani nel tripudio popolare. Mentre le gente festeggia la qualificazione i conti però stanno andando a rotoli. Il Governo socialista di George Papandreou uscito vincitore dalle elezioni politiche anticipate del 4 ottobre 2009 annuncia a sorpresa che la situazione dei conti pubblici è di gran lunga peggiore di quella dichiarata dal precedente esecutivo conservatore di Costas Karamanlis, un governo che in quattro anni ha preso il paese con un debito pubblico da 160 miliardi di euro e lo riconsegna con 300 miliardi. Un record mondiale. L'incertezza sul reale deficit di bilancio ellenico fa salire i tassi sui titoli di Stato a livelli stratosferici. Si comincia a profilare l'ipotesi di un finanziamento dell'Fmi, ma i Governi europei si oppongono per motivi di orgoglio continentale.

Angela Merkel resiste anche all'idea di un aiuto sollecito da parte della Ue, poiché ha in calendario importanti elezioni regionali, con il risultato che le tensioni sul debito sovrano si allargano agli altri Paesi periferici dell'Eurozona e aumentano il costo del salvataggio. Il 2 maggio 2010 l'Europa e l'Fmi danno il via libera a un finanziamento da 110 miliardi di euro in tre anni per Atene condizionato a un severo piano di tagli alla spesa e ai salari pubblici che prevede finanziamenti in tranche condizionati dal raggiugimento di obiettivi di risanamento. Atene è di fatto commissariata ma avvia un'operazione trasparenza che permette al mercato di capire la dimensione del "buco".

Irlanda travolta dalle sue banche. La vicenda irlandese assomiglia molto a quella islandese, cioè di un paese che si trasforma in una mega banca di investimento e che usa una leva finanziaria superiore al suo Pil. Una scommessa sconsiderata che prospera sulla deregolamentazione irrazionale del sistema finanziario e che travolge il pil nella sua caduta e fa schizzare il deficit pubblico in una notte al 30%. Il 21 novembre scorso il governo irlandese chiede aiuto alla Ue per far fronte ai costi di ricapitalizzazione delle sue banche ormai nazionalizzate secondo il principio "utili privati e perdite pubbliche". Una settimana dopo Irlanda e Ue concordano un piano di aiuti da 85 miliardi di euro (22,5 miliardi dall'Fmi, 22,5 dalla Ue, 17,5 dalla Facility europea, 17,5 dalla stessa Irlanda). L'ex Tigre celtica, accusata di dumping fiscale), per ora non cede sulla sua aliquota societaria del 10% che gli altri partner Ue chiedono di alzare in cambio dell'aiuto. Ma sono in pochi a scommettere sul suo mantenimento.

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