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Questo articolo è stato pubblicato il 25 maggio 2011 alle ore 08:40.
L'ultima modifica è del 25 maggio 2011 alle ore 08:44.

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Sud a caccia dell'industria che non c'è (Fotolia)Sud a caccia dell'industria che non c'è (Fotolia)

L'autobiografia della nazione attraverso i numeri. Che, sgranandosi uno dopo l'altro in un rosario lungo 150 anni, mostrano come il Nord senza il Sud non sarebbe esistito, ma anche come il Mezzogiorno abbia una (forse) irriducibile specificità fatta di industrializzazione senza imprenditori, minori infrastrutture materiali e analfabetismo difficile da sradicare.

La Svimez compie un'operazione di rigore positivistico pubblicando 538 (cinquecentotrentotto) tavole nel volume «150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011». Grafici e statistiche che annichiliscono le discussioni, spesso venate di ideologia, fra neo-borbonici e nordisti con tendenze anti-unitarie.

Il tutto, per provare a rispondere alla domanda: per quale ragione il divario fra il Sud e il resto del Paese cresce? Sì, perché, la capacità di creare ricchezza nel 1861 è la medesima. Dopo, l'indicatore del Pil procapite del Mezzogiorno in percentuale a quello del Centro-Nord scende. Se nel 1861 è pari a 100, negli anni 90 dell'Ottocento inizia a calare per poi precipitare durante il fascismo e, dagli anni Cinquanta, stabilizzarsi in una forchetta compresa fra il 50% e il 60% rispetto al Centro-Nord. E non è solo effetto della maggiore velocità del tasso di crescita di quest'ultimo. C'è dell'altro. Nel 1861, è tutta l'Italia a versare in condizioni di arretratezza. La produzione siderurgica nazionale è un centesimo di quella inglese. Nel tessile, i fusi a filare sono 450mila, contro i 30 milioni dell'Inghilterra.

«In questa minorità produttiva - riflette lo storico Guido Pescosolido - il punto di partenza fra il Centro-Nord e il Sud non è troppo dissimile». Nel 1861, gli addetti impegnati nell'industria meridionale sono 1,25 milioni. Nel Centro-Nord se ne contano 1,5 milioni. La percentuale della popolazione attiva che si dedica alla manifattura è addirittura superiore al Sud: il 22,8%, contro il 15,5 per cento. Ma, in centocinquanta anni, l'industria al Sud non supera gli 1,7 milioni di occupati, che nel resto dell'Italia arrivano in maniera graduale a 5,8 milioni. Al Sud, quasi che il tempo si sia fermato, continua oggi a lavorare nella manifattura una persona su cinque. Come centocinquanta anni fa.

Al Centro-Nord lo fa una su tre. «Prima il mercato nazionale non esisteva - dice Pescosolido - ogni staterello aveva barriere doganali. Con la costituzione dell'Italia si forma un mercato di sbocco unico e aperto. È anche per questo che la vicenda del Paese va letta in maniera unificata e unificante. Senza i consumatori del Sud, le merci del Nord sarebbero potute andare soltanto al di là delle Alpi». Anche se, nella nostra storia, non scatta un perfetto incastro delle due economie, che in alcuni segmenti vitali costituiscono circuiti distinti: per esempio, i prodotti agricoli meridionali, come l'olio e gli agrumi, dopo essere stati lavorati pre-industrialmente sono venduti subito sui mercati stranieri, non passano dal Nord. Sono trasportati spesso via mare. Non via ferrovia.

Proprio la ferrovia, nella nostra storia, ha un ruolo centrale. Cavour, dopo avere fatto l'Italia, usando la leva del debito pubblico prova a fare le ferrovie italiane. Nel 1861 nel Centro-Nord si trovano 14,5 chilometri di binari ogni mille chilometri quadrati. Nel Sud, soltanto 1,5 chilometri. Nel 1886, sono diventati rispettivamente 50,1 chilometri e 31,8 chilometri. Nel 1912, 64,4 contro 56. Nel 1938, si assiste addirittura a un sorpasso: 73,7 chilometri al Centro-Nord e 76,8 chilometri al Sud, dove però anno dopo anno si consuma un lento degrado che porta oggi la rete ferroviaria a 46,6 chilometri, rispetto ai 61 chilometri ogni mille chilometri quadrati del Centro-Nord. La dotazione infrastrutturale per lo sviluppo economico e civile non è esclusivamente materiale.

È pure finanziaria e cognitiva. Nel Mezzogiorno esistono meno banche e, in proporzione, tendono a esisterne sempre meno: nel 1890 sono 551 contro le 1.444 del Centro-Nord (una ogni due e mezza), nel 2010 sono 163 contro 626 (una ogni quattro). Soprattutto, c'è un problema culturale: nel 1861 in Piemonte e in Lombardia è analfabeta una persona su due, in Sicilia e in Puglia lo sono nove su dieci. Nel 1951, al Nord il tasso di analfabetismo è del 6,4% (2,6% in Piemonte e 2,7% in Lombardia), al Sud del 24,4% (32% in Calabria, 25% in Sicilia e 23% in Campania). «Nel 1951 - sottolinea l'economista Gianfranco Viesti - il calabrese medio andava a scuola meno di tre anni, il lombardo più di cinque». Dunque, il Sud esce devastato dalla seconda guerra mondiale. E non solo per le bombe e le rovine. «Fra il 1861 e la Prima guerra mondiale - dice Pescosolido - il gap fra Nord e Sud è in buona parte colmato. Il divario torna a crescere durante il fascismo».

Il Sud, con l'autarchia economica e l'isolazionismo-culturale, arretra di nuovo. L'analfabetismo è una piaga. I tentativi di integrazione fra i circuiti economici del Nord e del Sud perdono forza. I rapporti con l'estero si interrompono. Le infrastrutture materiali e finanziarie sono ancora più deboli al Sud. Tutti elementi che contribuiscono, sotto il fascismo, a scavare la voragine con il Nord. E, poi, c'è la guerra. È in questo contesto che l'industrializzazione, pensata nel secondo dopoguerra da alcuni intellettuali cattolico-democristiani e laico-socialisti e trasformata nel 1964 in linea strategica dal primo governo di centrosinistra (presidente del consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni), è giudicata il motore che potrebbe liberare nuove energie economiche, politiche e culturali. Energie che, in virtù dell'ottimismo materialista proprio di quel progressismo razionalista, potrebbe promuovere una metamorfosi dell'intero Mezzogiorno.

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