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Questo articolo è stato pubblicato il 26 agosto 2011 alle ore 06:42.

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Quando si dice mettere la pistola sul tavolo.
Mercoledì al Meeting di Rimini il presidente del Lingotto, John Elkann, ha spiegato che «Fiat continuerà a fare automobili. Bisognerà vedere se l'Italia vuole fare auto e se ci sono le condizioni per fabbricare auto come vuole fare la Fiat». L'amministratore delegato, Sergio Marchionne, ha ricordato il tema della governabilità delle fabbriche suscitando la reazione del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, che riferendosi al recepimento in manovra del "lodo Pomigliano" ha sottolineato: «Fiat ha avuto tutte le certezze che chiedeva per gli avviare gli investimenti del suo programma» . Qualche settimana fa, presentando la trimestrale agli analisti, Marchionne aveva chiarito che, per il nostro Paese, la futura collocazione del quartier generale dell'aggregato Chrsyler- Fiat (Auburn Hills o Torino) potrebbe essere l'ultimo dei problemi. Il primo tema italiano potrebbe presto diventare il futuro del lavoro e della produzione, negli stabilimenti del gruppo e nell'indotto che insieme sono ancora pari a un 3% del Pil nazionale. Per ragioni di mercato e di rapporti giudiziari con la Fiom-Cgil.
Ma quanto vale la pistola sul tavolo? Qual è il valore di Fabbrica Italia? E, soprattutto, in un tessuto industriale segnato sempre più da smagliature, lacerazioni e strappi, quale effetto può produrre sui territori una sua sospensione?
Senza Fabbrica Italia il nostro Paese dovrà rinunciare, nei prossimi tre anni, a oltre 43 miliardi di euro di nuova ricchezza. A tanto ammontano i ricavi calcolati da Prometeia in una simulazione econometrica richiesta dal Sole 24 Ore che mostra gli effetti di un'ipotetica definitiva archiviazione del progetto prima voluto e poi congelato da Sergio Marchionne. Di questi 43 miliardi, 27 riguardano direttamente la produzione di automobili e 16 invece la filiera.
Perché, nel caso di una mancata modernizzazione degli impianti e delle fabbriche italiane, l'effetto non si limiterà al gruppo Fiat. Anzi, una pressione fortissima sul tessuto industriale italiano sarà provocata dalle conseguenze negative sulla filiera. E sui sistemi economici locali che la compongono. Con il rischio di nuove crepe in piattaforme produttive già provate dalla crisi e da una globalizzazione che non ha risparmiato i cosiddetti territori. «Su questi - osserva Alessandra Lanza, responsabile analisi e ricerca economica di Prometeia - l'effetto più devastante non è calcolabile. Noi abbiamo stimato il valore economico formale perso da un'eventuale rinuncia definitiva a Fabbrica Italia. Ma poi c'è una dispersione di conoscenza tecnologica e di cultura industriale che di fatto non è misurabile. La grande impresa serve anche a questo: a trasmettere, in maniera pervasiva, competenze alle piccole e alle medie aziende che non dispongono delle sue risorse finanziarie e delle sue strutture di ricerca. Minori investimenti significano minore efficienza di tutta la manifattura».
Prendiamo il Piemonte, la regione che ha visto la nascita dell'auto italiana e che negli ultimi vent'anni, con le chiusure dell'Olivetti e del Gruppo Finanziario Tessile e con il ridimensionamento della Fiat salvata da Marchionne, ha sperimentato la fine del paradigma della grande impresa e la dolorosa transizione verso un sistema di Pmi. Prometeia stima che, da qui al 2014, i componentisti piemontesi avranno minori ricavi per quasi 6,5 miliardi. Oppure la Lombardia. Una volta ad Arese c'era l'Alfa. A Lambrate la Innocenti. Oggi la Lombardia non produce più auto. In più, negli ultimi quindici anni ha vissuto una decadenza relativa: come ha dimostrato il ricercatore di Nomisma Federico Fontolan in un recente intervento sulla voce.info, nel 1997 la Lombardia era l'undicesima regione europea per Pil pro-capite, oggi è soltanto la ventinovesima.
Qui un'eventuale scelta di non dare corso a Fabbrica Italia produrrà nella filiera della meccanica minori fatturati per 5 miliardi. Ci sono, poi, le ricadute sulla dorsale meccanica italiana, che dall'Emilia Romagna si allunga fino al Veneto. Il conto, per le imprese emiliano-romagnole, sarà di poco inferiore al miliardo. Se la "caveranno" con circa 640 milioni in meno i componentisti e i fornitori veneti.
L'impatto della chiusura di Fabbrica Italia sulle economie locali appare in tutta la sua forza soprattutto considerando quanto valore aggiunto industriale viene a mancare. Quest'anno il Piemonte perde "soltanto" un punto percentuale, l'anno prossimo il 3,9%, nel 2013 ben l'8,6% e nel 2014 addirittura l'11,3 per cento. La Lombardia quest'anno lo 0,3%, l'anno prossimo l'1,3%, nel 2013 il 2,8% e nel 2014 il 3,6 per cento. Significativo anche il danno per il Veneto: 0,6%, 2,6%, 5,7% e 7,5 per cento. Rilevante pure la perdita, in termini di valore aggiunto industriale, dell'Emilia Romagna: 0,7%, 3%, 6,5% e 8,6 per cento. Dunque, la mancata piena realizzazione di Fabbrica Italia rischia di trasformarsi in un duro gioco ad handicap per l'intero sistema manifatturiero del Nord: più o meno un decimo del valore aggiunto industriale in meno, come se a una persona venisse tagliata una delle dieci dita delle sue mani.
«Il rischio d'impoverimento delle reti territoriali e delle filiere - osserva Lanza, che è anche presidente del Gruppo economisti d'impresa - rappresenta l'aspetto specifico di un più generale rischio sistemico». Secondo l'ultima stima di Prometeia, alla fine l'eliminazione di Fabbrica Italia dal paesaggio manifatturiero italiano comporterà per l'intero Paese una perdità di quasi tre punti di produzione industriale.

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