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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2011 alle ore 18:02.

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Il deplorevole ritiro del sostegno al Doha Round da parte di Obama è il risultato di una serie di fattori e di errori che ho voluto evidenziare in una Lettera aperta ad Obama, scritta e pubblicata con le firme di circa 50 tra i più influenti esperti del commercio a livello mondiale, nella quale si esorta ad un spostamento della politica presidenziale verso Doha.

Il presidente americano è tuttavia prigioniero dei sindacati del paese che hanno sposato la falsa teoria secondo cui il commercio con i paesi poveri aumenterebbe le file dei poveri negli Stati Uniti abbassando il livello degli stipendi. In realtà, è più che evidente che è la teoria rivale ad avere un riscontro reale, ovvero che è il cambiamento tecnologico a creare pressione sugli stipendi, mentre le importazioni dei beni economici ad alta intensità di manodopera che i cittadini statunitensi consumano stanno in realtà compensando questa difficoltà.

Inoltre, i lobbisti di Washington concordano con l’assurda teoria degli esperti commerciali, come Fred Bergsten, secondo cui il ricavo che si otterrebbe da Doha, nei termini attuali, sarebbe pari a soli 7 miliardi di dollari circa su base annuale. Questa teoria non prende tuttavia in considerazione le enormi perdite che un eventuale fallimento del Doha Round implicherebbe. Potrebbe infatti, ad esempio, finire per mettere a rischio la credibilità dell’Organizzazione Mondiale del Commercio quale principale garante di uno scambio commerciale regolamentato e lasciare la liberalizzazione del commercio in balia di una politica discriminatoria che favorirebbe gli accordi preferenziali bilaterali. Bisognerebbe ricordare ad Obama che le importazioni creano anche posti di lavoro e che la sua enfasi sulla promozione solo delle esportazioni statunitensi è indice di una cattiva economia.

Ma più di ogni altra cosa Obama non dispone di una consulenza efficace sulla politica commerciale da parte suoi colleghi senior. Durante le primarie per la candidatura alla presidenza contro Obama, il Segretario di Stato Hillary Clinton, ad esempio, si era opposta alla liberalizzazione del commercio e aveva anzi esortato ad una pausa delle trattative sul libero scambio. Aveva poi mal interpretato il grande economista Paul Samuelson accusandolo di essere protezionista, sebbene lui non avesse mai fatto affermazioni in questo senso, senza mai ritrattare.

Allo stesso modo, sebbene Warren Buffett sia ora considerato l’economista più fidato di Obama, vale la pena ricordare che nel 2003 aveva affermato che la via migliore per ridurre il deficit statunitense fosse quello di autorizzare solo le importazioni che potevano essere finanziate tramite i ricavi delle esportazioni. Un Samuelson divertito e al contempo preoccupato ha richiamato la mia attenzione su quest’idea alquanto bizzarra. Ma se da un lato la ricetta di Buffett che prevede tasse più elevate per aumentare il livello di benessere dell’America è del tutto auspicabile, riuscirà Obama, dall’altro, a capire che un genio in un campo può invece essere un somaro in un altro?

Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è che i leader di stato smettano di non prendere posizione e si uniscano nell’esortare Obama a concludere con successo il Doha Round. Questa mossa da sola potrebbe riuscire a controbilanciare le forze che lo spingono nella direzione sbagliata. Non è ancora troppo tardi.

Jagdish Bhagwati è professore di economia e giurisprudenza presso la Columbia University e ricercatore senior di economia internazionale presso il Council on Foreign Relations.

Copyright: Project Syndicate, 2011.www.project-syndicate.orgTraduzione di Marzia Pecorari

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