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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2011 alle ore 15:54.

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CAMBRIDGE – Il prossimo anno segnerà il centesimo anniversario della nascita di Milton Friedman. Friedman è stato uno dei principali economisti del ventesimo secolo, vincitore del premio Nobel e fautore di importanti contributi alla teoria monetaria e alla teoria del consumo. Egli in realtà verrà ricordato principalmente come il visionario che ha dotato della forza di fuoco intellettuale gli entusiasti del libero mercato nella seconda parte del secolo, e come l'eminenza grigia dietro al drammatico cambiamento nelle politiche economiche verificatosi a partire dal 1980.

In un tempo dove lo scetticismo riguardo i mercati era rampante, Friedman spiegò in un linguaggio limpido e accessibile che l'impresa privata è il fondamento della prosperità economica. Tutte le economie di successo sono basate sulla parsimonia, sul duro lavoro, e sull'iniziativa individuale. Egli si scagliò contro la regolamentazione statale che intralcia l'imprenditoria e vincola i mercati. Ciò che fu Adam Smith per il diciottesimo secolo, Friedman lo è stato per il ventesimo.

Quando andava in onda nel 1980 la storica serie televisiva di Friedman Free to Choose, l'economia mondiale era alle prese con una singolare trasformazione. Ispirati dalle idee di Friedman, Ronald Reagan, Margaret Thatcher e molti altri capi di governo iniziarono a rimuovere i vincoli e regolamenti accumulatisi nei decenni precedenti.

In Cina venne abbandonata la pianificazione centrale e fu permesso ai mercati di emergere – prima per i prodotti agricoli e, a seguire, per i prodotti industriali. In America Latina vennero drasticamente ridotte le barriere al commercio e fu avviata la privatizzione delle aziende statali. Quando cadde il Muro di Berlino nel 1990, non c'era dubbio riguardo alla direzione che le economie pianificate avrebbero preso: verso il libero mercato.

Ma Friedman ha anche prodotto un lascito meno felice. Con il suo zelo nel promuovere il potere dei mercati, finì per marcare una distinzione troppo netta tra il mercato e lo Stato. A tutti gli effetti, presentò il governo come nemico del mercato. E ci rese dunque ciechi di fronte all'evidente realtà che tutte le economie di successo sono, di fatto, delle economie miste. Sfortunatamente, l'economia mondiale si sta ancora confrontando con quella cecità in seguito ad una crisi finanziaria risultata, in misura non trascurabile, dall'aver lasciato i mercati finanziari troppo liberi di correre.

La prospettiva friedmanita sottovaluta largamente i prerequisiti istituzionali dei mercati. Lasciate ai governi il semplice compito di far rispettare i diritti di proprietà ed i contratti, e – presto! – i mercati faranno la magia. In realtà, i mercati di cui le moderne economie necessitano non si auto-generano, auto-regolano, auto-stabilizzano, o auto-legittimano. I governi devono investire in reti di trasporto e comunicazione; devono controbilanciare asimmetrie di informazione, esternalità, e disparità del potere contrattuale delle parti; moderare il panico finanziario e le recessioni; e rispondere alle richieste della popolazione per quanto riguarda reti di protezione, e assistenza sociale.

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