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Questo articolo è stato pubblicato il 26 luglio 2011 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 26 luglio 2011 alle ore 07:31.

L'America è a un bivio. Nelle prossime ore, al massimo nei prossimi due giorni, Washington dovrà dare prova di capacità di reazione, di saper uscire del solito circolo vizioso della "Beltway", la cintura soffocante delimitata dalla Interstate 495, che chiude al suo interno un dibattito politico sempre asfittico.
È il luogo comune che tutti promettono di superare in campagna elettorale, senza poi mantenere, come ci conferma il dibattito sterile delle ultime settimane sul bilancio.
Ma questa volta è diverso. Il bivio è molto ben indicato, perché se l'America non rischia il default, rischia a breve il downgrading per un mancato accordo credibile sulla riduzione del disavanzo pubblico e del rapporto debito/Pil che sarà già alla fine di quest'anno del 102%. Quando il downgrading arriverà - e in questa condizione di paralisi politica si tratta solo di tempo - saremo alla fine di un mito: per la prima volta il rischio America, percepito da sempre come l'investimento «of last resort», sarà vulnerabile. E di questi tempi entrare in territorio inesplorato è altamente pericoloso.
Da ieri infatti il mercato ha cominciato a percepire i primi segnali di una visione più chiara della posta in gioco sul fronte disavanzo: se non si farà qualcosa di credibile, il rischio è che per il 2012 si arrivi a un rapporto già del 110%. Un percorso esplosivo. E c'è già chi parla attorno all'annuncio di una possibile riduzione dei valori dei buoni decennali fra i 100 e i 200 punti in un sol giorno. Fatto rarissimo se dovesse davvero verificarsi. L'oro, l'abbiamo visto sempre ieri, è di nuovo in corsa su nuovi record. La Borsa in ribasso. Il dollaro si è indebolito sull'euro. Il credit default swap sugli Usa è diventato più caro di quello indonesiano, forse perché è un mercato molto modesto. Ma in un clima di fragilità psicologica anche questo non aiuta.
Il mercato si è già spostato da tempo dalla percezione rischio "default" a quella rischio "downgrading". Le due cose sono molto diverse. Il default è stato sempre escluso per varie ragioni. Intanto perché si tratta di una questione tecnica: è ovvio che l'America non rischia come la Grecia di non trovare credito sul mercato. Ci sono poi state già delle precauzioni: alle recenti aste del Tesoro, inclusa quella di ieri, si è progressivamente diminuita l'offerta.
Questo per poter restare entro i limiti del tetto del debito al di là del 2 agosto se l'accordo finirà per essere ratificato in ritardo. C'è anche la possibilità che Barack Obama invochi il 14esimo emendamento della Costituzione che attribuisce poteri speciali al Presidente per potere ripagare il debito, la cui validità, dice la Costituzione «….non sarà messa in dubbio.....inclusi i debiti per le pensioni o per pagare servizi utili a reprimere le ribellioni». Ma la parola finale in materia, per quel che abbiamo sentito in autorevoli ambienti finanziari a Wall Street, è di John Boenher, il Presidente repubblicano della Camera. Ci risulta che abbia chiamato personalmente alcuni dei grandi protagonisti della finanza americana per rassicurarli: forse non ci sarà accordo sulla riduzione del disavanzo, ma ci sarà accordo per evitare il default americano: «pagheremo i nostri debiti» avrebbe detto a uno di loro.
E qui interviene il posizionamento dei finanziari americani sul rischio contagio. Coloro che abbiamo interpellato a New York, di quelli accusati spesso di muovere i mercati in modo solo speculativo, ci hanno dato privatamente un quadro sobrio della situazione nel suo insieme. Ad esempio, è sbagliato pensare che alcuni di loro vogliano fare la guerra all'euro solo per ragioni speculative. In alcuni casi è vero l'opposto. Chi ha investito in titoli azionari come hedge contro l'inflazione ha il terrore che la Grecia e l'Europa si avvitino di nuovo. Chiedono che si risolva al più presto il problema irlandese, e chiedono riforme strutturali a Paesi come l'Italia. Ma si rendono conto che oggi il problema vero passa per l'America, il vero gigante d'argilla in materia di conti con un deficit che raggiungerà i 1.500 miliardi di dollari. La direzione al bivio è chiara, ma non necessariamente si imboccherà quella dei tagli necessari, 4.000 miliardi di dollari in 10 anni, per un attimo a portata di mano. Insomma siamo al solito problema all'interno della "Beltway". Anzi, a quello implicito in ogni democrazia liberale.
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