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Questo articolo è stato pubblicato il 17 gennaio 2012 alle ore 07:14.

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Si chiama Capital World Investment. Si tratta di una delle maggiori società di gestione del risparmio americane. E alla domanda più ricorrente di questi giorni, cioè «chi sta dietro le agenzie di rating?», può permettersi di alzare non una ma due mani. Capital World Investment è infatti contemporaneamente il primo azionista di Standard & Poor's (detiene il 10,26% della casa madre McGraw Hill) e il secondo maggiore socio di Moody's (con il 12,60%). Moody's e S&P sono concorrenti sul mercato, certo. Ma a Capital World Investment non importa: ha comprato 28 milioni di azioni della prima e 30 milioni della seconda. Giusto per non rischiare di sbagliare, ha puntato su entrambi i cavalli.

La stessa filosofia ha guidato Vanguard Group, i fondi Blackrock, State Street e molti altri: tutti questi grandi investitori Usa, secondo i dati Bloomberg, figurano infatti tra i principali azionisti sia di Moody's, sia di S&P. Insieme a tanti altri fondi o banche. Questo crea, potenzialmente, un cortocircuito: tutti questi investitori sono da un lato azionisti dei due big del rating, ma dall'altro sono anche utilizzatori dei loro stessi rating quando acquistano obbligazioni sul mercato. Il conflitto di interessi è evidente. Le possibili pressioni anche. I big del rating - ha sentenziato ieri il commissario europeo Olli Rehn «giocano secondo le regole del capitalismo finanziario americano». Ovvio, si potrebbe aggiungere: hanno l'intero capitalismo finanziario americano come azionista...

Errori e conflitti di interesse
Che i colossi del rating siano intrisi di conflitti di interesse è risaputo. Il più noto è legato al fatto che Moody's S&P e Fitch sono pagati dalle stesse società che devono valutare. Questo solleva da sempre sospetti di ogni genere: in tanti sono convinti che le agenzie di rating abbiano per esempio assegnato alle cartolarizzazioni di mutui americani voti troppo benevoli proprio per 'coltivare' i propri clienti. Per compiacerli. Per tenerli buoni. Le agenzie di rating si sono sempre difese su questo fronte: Moody's e S&P valutano insieme più di due milioni di società, Stati o prodotti strutturati. Questo rende quasi ininfluente - secondo la loro difesa - la singola commissione percepita per il singolo rating. Sta di fatto che il conflitto resta. E che ogni errore, anche quando commesso in buona fede, sarà sempre guardato con dietrologico sospetto.

Ma quello degli azionisti è forse il conflitto più macroscopico: i grandi soci di Moody's e S&P, come visto, sono in gran parte i fondi che usano i rating per investire, oppure sono banche che alle stesse agenzie chiedono un voto quando devono emettere obbligazioni. Questo conflitto è stato sollevato anche dalla Sec, l'Autorità di vigilanza Usa, che lo scorso settembre ha segnalato: «Due delle maggiori agenzie non hanno specifiche procedure per gestire il potenziale conflitto di interessi quando una società loro azionista chiede un rating». È vero che S&P ha declassato anche il rating Usa (sollevando l'ira di Obama), ma tutti questi conflitti irrisolti sollevano in molti le più disparate teorie del complotto.

Opinioni troppo pesanti
Si potrebbe obiettare che nel mondo della finanza nessuno è privo di conflitti di interesse. Le banche ne hanno molti di più: quando l'analista di una grande investment bank esprime un giudizio su qualche società quotata in Borsa (anche solo i consigli di comprare o vendere le sue azioni), è forte il sospetto che lo faccia perché la sua banca è creditrice di quella stessa società. Quando l'economista di una banca si esercita in previsioni sull'economia di vari Paesi, è altrettanto forte il sospetto che la stessa banca per cui lavora abbia un'esposizione su quello stesso Paese. Eppure nessuno si scompone quando Morgan Stanley, oppure Goldman Sachs, effettuano previsioni sull'Italia o sulla Francia.

Perché invece i tanto vituperati giudizi di Standard & Poor's, Moody's o Fitch sollevano così tante reazioni? La risposta è semplice: perché quei voti che le agenzie di rating assegnano, vanno a condizionare le politiche d'investimento di tutti i fondi del mondo. Insomma: perché le decisioni delle agenzie di rating - giuste o sbagliate che siano - vanno a creare una serie di effetti automatici a catena che rischiano di avvitare la crisi.

Ecco perché. I fondi operano sulla base di mandati molto stretti: alcuni di loro, per esempio, possono comprare solo obbligazioni con un rating superiore alla 'Tripla B'. Quando un bond viene declassato, e il suo rating scende sotto quella soglia, tutti questi fondi sono dunque costretti a venderlo. È così che la decisione di un'agenzia di rating - cioè un'opinione - va a condizionare, nello stesso momento, le decisioni di milioni di investitori in tutto il mondo. Forse, dunque, il problema è tutto qui: possibile che il rating sia, in tutto il mondo, il parametro principale su cui basare gli investimenti?
m.longo@ilsole24ore.com

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