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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2014 alle ore 07:46.
L'ultima modifica è del 27 gennaio 2014 alle ore 18:31.

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Hanno vissuto di rendita per cinque anni. L'abbondante liquidità immessa dalle banche centrali di tutto il mondo ha garantito un lungo periodo di quiete ai Paesi emergenti. Ora però la festa è finita, la Federal Reserve ha iniziato a ritirare gli stimoli monetari e i mercati si stanno adeguando a uno scenario in cui è necessario diventare più critici e selettivi. Gli investitori stanno così scoprendo, spesso sulla loro pelle, che tra le economie emergenti si nascondono non poche insidie.

Crescita più bassa, squilibri nei conti con l'estero, riserve valutarie in calo tornano a preoccupare. E riesplode prepotentemente quel rischio politico che sembrava ormai scomparso: proteste di piazza e scontri tra istituzioni accendono la spia rossa dell'instabilità. La «nuova normalità» fa tornare a galla vecchie debolezze degli emergenti, che però restano un motore fondamentale dell'economia globale e appaiono nel complesso più attrezzati del passato a resistere alle pressioni dei mercati.

1) È finita l'era della crescita a ritmi accelerati
Per i Brics, e non solo, è finita un'era. I tassi di crescita che hanno conosciuto per decenni non sono più sostenibili. Per 35 anni la Cina ha messo a segno un tasso medio di espansione del 9,7%, «un miracolo senza precedenti nella storia dell'uomo» secondo l'ex capo economista della Banca mondiale Lin Yifu. Ora Pechino cresce del 7,5% ed è il migliore dei Brics: l'India viaggia intorno al 5%, Sudafrica, Brasile e Russia tra il 2 e il 3 per cento. È una frenata strutturale, non ciclica, provocata da un mix di fattori: tra quelli esogeni spicca la fine del boom dei prezzi delle materie prime, di cui molti Paesi emergenti sono grandi esportatori; tra quelli endogeni in cima alla lista c'è la cronica carenza di investimenti (con l'eccezione cinese) che non sono in grado di tener testa all'aumento della domanda di consumi da parte della classe media e sono frenati da infrastrutture inadeguate, burocrazia e carenza di manodopera qualificata.

2) Se Pechino non ride gli altri piangono
Il rallentamento cinese, anche se ai più appare fisiologico, ha un impatto spesso sottovalutato sull'Asia e non solo. «Secondo le nostre stime - ha spiegato Min Zhu, vice direttore dell'Fmi, al World Economic Forum - un punto in meno di crescita degli investimenti in Cina toglie quasi un punto alla crescita del valore aggiunto nella catena di fornitori regionale». Se Indonesia, Malaysia e Thailandia sono sempre più dipendenti da Pechino, non bisogna dimenticare che dall'altra parte del mondo, in Africa e Sudamerica, la Cina è il maggior acquirente di materie prime. Se ne importa di meno, Paesi come Brasile, Argentina e Cile accusano il colpo.

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