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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2011 alle ore 09:20.
L'ultima modifica è del 02 marzo 2011 alle ore 09:25.
Il silenzio con cui lo avevano accolto gli operai non l'aveva smontato più di tanto: «Se in dodici mesi sono riuscito a farmi ascoltare, l'anno prossimo mi applaudiranno», dichiarò andando via. Però in occasione della sua seconda visita, nel 1925, aveva sentito il bisogno di dichiarare: «Si dice che il Piemonte è freddo. Non è vero. Il Piemonte è serio. La differenza è sostanziale!», e, in tono ancor più rivelatore di una malcelata insicurezza, «Si è detto che il Piemonte non è fascista. Altro errore!». Dopodiché non si era più fatto vedere per ben sette anni: tornò soltanto in quelli che altrove in Italia erano davvero gli anni del consenso, nel '32, nel '34, e per la quinta volta appunto nel '39.
Tornava; ma i rapporti di polizia non erano incoraggianti. «Nella massa lavoratrice si riscontra sempre un ambiente decisamente avverso alle istituzioni del regime», scrivevano gli informatori nel dicembre 1937. La crisi economica e i provvedimenti per l'autarchia «hanno creato una ostilità latente per il regime, ostilità che pubblicamente non si manifesta per paura ma che può essere provata e sentita da tutti», si rincarava nel dicembre 1938. Le leggi razziali erano state accolte gelidamente, in particolare dagli ambienti cattolici, che a Torino e in Piemonte non erano - e non sono - così protagonisti della vita collettiva come avviene ad esempio a Milano e in Lombardia, ma avevano una loro discreta influenza: «Perdura l'incertezza o il malcontento di tutti», confessava la polizia, e precisava: «Negli ambienti cattolici si biasima apertamente la politica antiebraica».
Quanto all'ipotesi della guerra, e di una guerra contro la Francia e al fianco dei tedeschi, che in quella primavera del 1939 aleggiava già oscuramente nell'aria, il giudizio era ancora più netto: «Lo stato d'animo della popolazione torinese nel presente momento è chiaramente avvertito da chiunque: esso è nettamente contro ogni guerra e contro la Germania». «Udendo discorsi che qui si fanno ovunque, si ha la sensazione di trovarsi in una città che non è fascista», concludeva sgomenta la Questura torinese.
Perciò la visita del Duce fu preparata con misure eccezionali. Come si faceva sempre in questi casi, si provvide a mettere in guardina un certo numero di oppositori e sovversivi. Ma fu soprattutto la Fiat, che non voleva incidenti, a pianificare con cura la partecipazione delle masse. Tutti i dipendenti ricevettero l'ordine di presentarsi a Mirafiori la mattina del 15 maggio, con un cartellino che bisognava timbrare prima delle otto. Perciò, fin dalle prime ore del mattino decine di migliaia di persone si accalcavano davanti al palco costruito accanto all'officina principale, mentre gli operatori dell'Istituto Luce armeggiavano per riprendere le sequenze del documentario che avrebbe testimoniato l'abbraccio tra il Duce dell'Italia fascista e le masse dei lavoratori.
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