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Questo articolo è stato pubblicato il 01 maggio 2011 alle ore 08:12.

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Troppo contenzioso, assenza di standardizzazione contrattuale, carenza di programmazione pubblica: sono queste le principali ragioni che frenano il coinvolgimento dei capitali privati nelle infrastrutture in Italia.

Lo scrive Bankitalia che al tema delle infrastrutture ha dedicato una corposa ricerca a più voci e un seminario che è stato introdotto giovedì dal governatore Mario Draghi. «In Italia - ha detto Draghi - i contratti di partenariato pubblico-privato dal 1990 al 2009 hanno contribuito solo per il 3 per cento alla spesa totale in opere pubbliche, contro il 4-5 per cento in Germania e Francia e il 12 per cento in Spagna». Non sono mancati mutamenti normativi recenti che tuttavia non hanno rimosso gli ostacoli principali allo sviluppo del project financing «legati alla corretta allocazione tra le parti dei rischi di realizzazione e di gestione delle opere, oltre che alla felssibilità dei contratti».

A ridurre le cause del contenzioso in tutto il settore dei lavori pubblici dovrebbe pensare il decreto legge sulla crescita che il governo sta prepararando e che dovrebbe andare all'esame del Consiglio dei ministri giovedì o venerdì. Tetto alle riserve dichiarate dalle imprese, contenimento delle opere compensative, penalizzazione delle «liti temerie» fra le misure inserite nelle bozze.
Anche a un'ipotesi di standardizzazione dei contratti di concessione stanno lavorando il ministero dell'Economia e il dipartimento economico di Palazzo Chigi, che si trovano soprattutto in sede Cipe ad affrontare numerose questioni legate al finanziamento privato di opere pubbliche. Uno dei nodi è quello degli aeroporti, per cui vi sono in discussione i piani di investimento delle maggiori società di gestione (Adr, Sea, Save) e i relativi aumenti tariffari richiesti a gran voce, finora senza incontrare mai il via libera di Giulio Tremonti.

Altro nodo, quello delle autostrade a pedaggio come la Brebemi e la Pedemontana lombarda, che presentano difficoltà a chiudere i contratti finanziari, nonostante siano già state approvate dal Cipe gli atti di concessione e la loro revisione e addirittura aperti i cantieri. O ancora, le nuove strade a pedaggio che avrebbe dovuto lanciare l'Anas e che invece si sono fermate sulla soglia della gara: per esempio la A21 Parma-Verona, la Caianello-Benevento, la Termoli-San Vittore, la Orte-Mestre.
La «standardizzazione» contrattuale cui guarda Bankitalia è quella cui vorrebbe tendere anche il ministero dell'Economia, alla ricerca di regole generali senza dover valutare i casi singoli, le corsie preferenziali, le richieste di trattamenti specifici che non di rado arrivano dai singoli concessionari. Quanto a Palazzo Chigi, il capo del dipartimento economico, Paolo Emilio Signorini, pure presente al seminario di via Nazionale, ha evidenziato il ruolo di piani settoriali, come quello degli aeroporti, che non siano una mera sommatoria di opere ma selezionino effettivamente gli interventi necessari sulla base dell'effettiva domanda di mobilità, aiutando i decisori pubblici a trattare al meglio con i concessionari, sapendo quali investimenti chiedere e privilegiare. Un positivo esempio citato da Signorini è quello che One Works ha realizzato per l'Enac e che ora è stato adottato in sede comunitaria come base per la mappa gerarchica degli aeroporti italiani. Una cosa del genere non esiste, per esempio, per i porti.

I due passaggi - la standardizzazione contrattuale e una capacità di negoziazione reale della pubblica amministrazione rispetto al concessionario - sono ineludibili per il vero sblocco del project finanncing. Non a caso lo strumento del partenariato decolla oggi nella fase del bando di gara promosso dalle amministrazioni, ma fa molta più fatica a tradursi in cantieri e opere. Il Cresme rileva un vero e proprio boom di opere messe in gara per la partecipazione privata negli ultimi anni. Questo valore era pari a 1.435 milioni nel 2002, ha toccato la punta di 9.291 milioni nel 2009 per scendere a circa 8,1 miliardi nel 2010. Il boom più recente è dato dal fenomeno specifico degli impianti di energie rinnovabili che negli ultimi due anni ha conosciuto un boom.

Anche il dato Bankitalia non nasconde l'accelerazione che pure c'è stata negli ultimi anni in Italia ma la considera insufficiente rispetto ai partner europei che si trovano più avanti (soprattutto Regno Unito e Spagna) e a quelli che sono partiti comunque prima di noi (Francia e Germania). Come per l'intero processo di accumulazione di capitale pubblico pesano non tanto gli aspetti finanziari, quanto «l'incertezza del quadro di bilancio, le carenze nei processi di valutazione e selezione delle opere, la sovrapposizione delle competenze dei diversi livelli di governo, i limiti della normativa che regola l'affidamento dei lavori e il monitoraggio del loro avanzamento». Per l'intero sistema delle infrastrutture ne derivano tempi e costi di realizzazione elevati. Più che un problema di risorse finanziarie - dice Bankitalia - c'è una programmazione carente, una ridotta capacità di realizzazione, una regolazione che non conente lo sfruttamento ottimale delle infrastrutture esistenti. Il risultato è che la spesa italiana per investimenti pubblici rispetto al Pil resta più frenata di quella dei principali paesi europei, con l'eccezione della Germania: la Spagna è oltre il 4%, la Francia al 3,3%, la Gran Bretagna tra il 2,4 e il 2,7%. L'Italia è intorno al 2%, ma destinata ancora a scendere negli anni prossimi.

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