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Questo articolo è stato pubblicato il 21 maggio 2011 alle ore 15:47.

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Donati: "Contro il doping si fa troppo poco. E a Londra non sarà diverso"Donati: "Contro il doping si fa troppo poco. E a Londra non sarà diverso"

«Per lo sport professionistico non credo, francamente, ci sia speranza. Ma ho fiducia nella prevenzione e nell'informazione per lo sport di base, per i giovani». Le parole del professor Sandro Donati gracchiano nella cornetta del telefono e graffiano il foglio come una sentenza. Parla di doping, Donati. Argomento che analizza e studia da decenni, lui che è stato ct degli sprinter della nostra nazionale di atletica, poi dirigente Coni, ora consulente della Wada (l'Agenzia Mondiale Antidoping), e autore, tra l'altro, del Report sui traffici internazionali delle sostanze dopanti.

Chiedere a Donati, a un anno di distanza dall'accensione del tripode, che Olimpiadi si aspetta a Londra2012, è quasi pleonastico, ma da qualche parte bisogna pur cominciare...

Che Olimpiadi si aspetta, professor Donati, sotto l'aspetto della lotta al doping?

«Lotta? È un termine improprio – osserva subito Donati -. Perché a parole in molti lottano contro il doping, ma nei fatti sono ben pochi a fare qualcosa di concreto. Mi riferisco in particolare alle istituzioni sportive, che si accontentano di dare l'immagine di questo contrasto»

Prove di quello che afferma?

«Una su tutte: il numero limitatissimo di controlli antidoping a sorpresa, che sono gli unici effettivamente efficaci. È chiaro che un atleta si aspetta di essere controllato prima, durante o dopo una gara; più difficile riesca a nascondere l'assunzione di sostanze illecite se colto di sorpresa»

Eppure il numero di controlli è in costante aumento....

«Ma non quelli a sorpresa, appunto. Anche perché costano. Pensi che un normale controllo già è molto costoso di per sé, sfiorando i 500 euro. Figurarsi poi se bisogna effettuarlo aggiungendoci un lungo viaggio, magari per andare a trovare un atleta che si sta allenando dall'altro capo del mondo...»

Mi faccia capire: mi sta dicendo che a volte ci si va ad allenare in Messico, Sudamerica o Namibia non solo perché l'aria è buona...

«....Ma anche perché laggiù gli ispettori faranno sicuramente più fatica a raggiungerti. Anche perché ci sono spesso ostacoli burocratici. Se devo andare a controllare un atleta in Cina, serve un visto d'ingresso, ad esempio. È come sfiorare un campanello d'allarme, che trillando fa scattare le contromisure da parte di chi a quel controllo vuole sottrarsi. E poi, anche se il controllo lo fai...»

Che accade?

«Accade che molte sostanze non vengono rilevate. Basti pensare all'ormone della crescita, e ad altre sostanze di tipo insulinico che sono a esso correlate. E ci sono poi emoglobine di origine bovina che sfuggono alle analisi del sangue. E ancora oggi è difficilissimo individuare l'eventuale trasfusione di globuli rossi propri, magari messi “in riserva” ad arricchire e poi ritrasfusi prima della gara. E poi ci sono decine di farmaci stimolanti che neppure vengono ricercati. Insomma, l'antidoping è un groviera con dei buchi belli grossi...»

Un quadro davvero poco incoraggiante, soprattuto se a farlo è un consulente della Wada, come lei è...

«Devo dire che, onestamente, la Wada fa quel che può: ha messo a punto un protocollo internazionale, un sistema di reperimento degli atleti, fa questi controlli a sorpresa. Ma fa tutto questo con un budget ridottissimo e avendo ereditato (è stata creata nel 1999, ndr) la situazione lasciata dalla Commissione Medica del Cio, che si era guardata bene dallo studiare metodi di rilevamento dei nuovi farmaci. Pensi che la Wada fa un migliaio di controlli annuali, divisi su una cinquantina di discipline»

Controlli poco più che simbolici, quindi...

«Bravo! Ha detto la parola giusta: simbolo. Bisogna far vedere che si fa qualcosa, ma in realtà l'importante, per tutti, è non intaccare il simbolo. Su questo sono tutti d'accordo: le istituzioni sportive, la politica, i media. E il pubblico, che è l'anello che chiude la catena»

Allora liberalizziamolo, questo doping...

«Nessuno di questi soggetti se ne prenderebbe la responsabilità, soprattutto considerando i danni alla salute che sono inevitabili. Meglio piuttosto far finta di far qualcosa, con scarsissima efficacia»

Come spezzare il cerchio?

«Affidandosi a soggetti terzi. Penso alle procure, molto più efficaci delle istituzioni sportive. O alla Commissione di vigilanza sul doping: lo scorso anno su 1000 controlli su sportivi amatoriali abbiamo rilevato 56 positività. Percentuale dieci volte superiore a quella rilevata del sistema sportivo»

Possibilità di redenzione, per lo sport professionistico?

«Direi nessuna. A quel livello lo sport è business, mito che non può essere sporcato. Ci sono atleti ultraquarantenni che ancora gareggiano e puntano ai Giochi. A me la cosa spaventa un po', ma per molti sono dei miti. E ognuno ha i miti che si merita»

Per lo sport di base quale soluzione?

«Prevenzione e informazione, soprattutto per i giovani. Per far capire quali danni può fare il doping sulle loro vite»

A Londra quali nuove diavolerie dovremo aspettarci?

«Non credo molto di nuovo. Oggi non servono nuovi farmaci, basta saper mescolare con accortezza quelli già esistenti....»

Mi tolga una curiosità: i Giochi li guarderà, almeno in tv?

«Nooo! (e giù una gran risata, ndr)... magari aspetto Rio2016 per vedermi il golf, che mi piace e mi diverte...»

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