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Questo articolo è stato pubblicato il 12 giugno 2012 alle ore 19:21.
L'ultima modifica è del 12 giugno 2012 alle ore 17:35.

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È possibile che Vladimir Putin si auguri di perdere, questa sera, contro la Polonia? Si dice che il presidente russo, caricando con il peso della Storia questi Europei di calcio già segnati dal caso Ucraina, desideri arrivare secondo nel suo girone per vedere la Russia affrontare la Germania – e batterla – in una data altamente simbolica, il 22 giugno, giorno in cui l'Unione Sovietica venne invasa dai nazisti. Ma questa sera a Varsavia si gioca Polonia (che ha pareggiato con la Grecia)-Russia (vincitrice sulla Repubblica Ceca): pochi confronti volano al di sopra dello sport più di questo, per evocare ben altro nell'animo dei popoli che si sfidano.

Polonia e Russia condividono secoli di guerre, spartizioni, annessioni, odii: il prezzo, come spesso avviene, del loro posto fianco a fianco sulla carta geografica. Il primo tempo – per così dire, essendo partiti dal calcio – i polacchi lo hanno giocato fuori casa, trascinati dalla Lituania nel Gran Ducato di Moscovia. È il diciassettesimo secolo, gli anni dei "falsi Dmitrij", pretendenti al trono degli Zar appoggiati dai sovrani polacchi, cattolici, per indebolire quello che sarebbe diventato l'impero ortodosso dei Romanov. Quando il primo falso Dmitrij – sosteneva di essere figlio di Ivan il Terribile – venne catturato e ucciso, i boiari caricarono un cannone con le sue ceneri, e spararono in direzione della Polonia.

È come se la Storia abbia voluto avvelenare per sempre le relazioni. Nei secoli successivi i russi si unirono agli Asburgo e ai prussiani per spartire la Polonia fino a cancellarla dalla mappa, poi per Varsavia, riconquistata l'indipendenza, venne la guerra con la Russia bolscevica. E venne la "coltellata alla schiena" di Stalin, che il 17 settembre 1939 entrò in Polonia da Est, 16 giorni dopo l'invasione nazista da Ovest. La storia di una Polonia completamente libera ripartirà soltanto nel 1989, con la caduta del comunismo.

Poco più di due anni fa, spinti anche da comuni interessi economici, i Governi di Russia e Polonia avevano cercato di fare un passo verso la riconciliazione. Non avrebbero potuto essere in nessun luogo se non a Katyn, tra le foreste che circondano Smolensk, nella Russia orientale. Nel 1941, la polizia segreta di Stalin aveva fatto massacrare a Katyn 22mila ufficiali e intellettuali polacchi, l'élite di un Paese calpestato che non avrebbe dovuto risollevarsi mai più.

I sovietici avevano sempre attribuito la responsabilità della strage ai nazisti; per i polacchi, una vera riconciliazione avrebbe potuto essere resa possibile solo dalla parola "scuse", pronunciata dai russi. Putin, che incontrò il premier polacco Donald Tusk al memoriale di Katyn il 7 aprile 2010, cercava una via di mezzo. La Storia gli sfuggì di mano, infierendo ancora una volta su Katyn pochi giorni dopo: quando il Tupolev del presidente polacco Lech Kaczynski, venuto a Smolensk per commemorare separatamente i martiri di Katyn, si schiantò al suolo uccidendolo insieme alla moglie, e a 94 alti funzionari.

Putin tornò a Smolensk, su quella terra abbracciò impacciato Tusk: per qualche tempo la partecipazione dei russi, l'apertura degli archivi segreti sulla strage di Katyn e un'inchiesta congiunta sulle cause dell'incidente aereo sembrarono addirittura aiutare la riconciliazione. Ma non tutte le ombre sono state sgombrate, non tutti in Polonia – per primo Jaroslaw, il fratello del presidente defunto – sono convinti che quell'aereo non sia precipitato per un complotto. Pur non avendo prove.

Oggi, 12 giugno, la Russia celebra la sua festa di nazione rinata dall'Urss. È un giorno particolare. La delicatezza di viverlo in terra polacca è nelle mani dei tifosi.

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