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Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2012 alle ore 15:43.

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Matteo Renzi durante il discorso di chiusura dell'incontro ''Viva l'Italia viva'' a Firenze (Ansa)Matteo Renzi durante il discorso di chiusura dell'incontro ''Viva l'Italia viva'' a Firenze (Ansa)

«Chi vuole serenità, sicurezza, chi pensa che il futuro vada aspettato voti l'usato sicuro. Noi siamo quelli dell'innovazione, quelli che pensano che il futuro va costruito. Come ha detto Alessandro Baricco, per noi il futuro è un piacere, una sfida». E ancora: «Noi siamo gli unici che hanno il diritto di cambiare le cose perché siamo gli unici non invischiati nelle gestioni fallimentari degli ultimi venti anni. Siamo gli unici che possono andare al governo senza presentare la giustificazione. Noi siamo il cambiamento che l'Italia sta aspettando». Matteo Renzi chiude i lavori alla Leopolda di Firenze in un'atmosfera americana (a cominciare dallo slogan obamiano "il meglio deve ancora venire") e lancia ancora una volta il suo messaggio di rinnovamento.

La "rottamazione" si sposta dalle persone la Paese. Non è un fatto anagrafico, ha ricordato lo stesso Renzi più volte in questi giorni lamentando anche con i suoi di essere "debole" tra gli anziani. «Mi tengo un Morando e vi do un Fassina tutta la vita», dice tra gli applausi della platea. Eppure c'è la forte sensazione che, esaurito il messaggio originario della rottamazione con il clamoroso passo indietro prima di Walter Veltroni poi di Massimo D'Alema, il maggiore competitor di Pier Luigi Bersani alle primarie del centro-sinistra abbia perso la carica.

Nonostante le accuse degli avversari il programma c'è (dalla riduzione del peso fiscale alla proposta Ichino del contratto unico di lavoro, dalla sburocratizzazione «a tappeto» del Paese alla valorizzazione del merito). E c'è senz'altro la voglia dei suoi di giocarsela fino in fondo. Ma quando pronuncia quel «se perdo non chiedo premi di consolazione» e durante il discorso conclusivo cita i sondaggi che lo danno dietro a Bersani di 10 o 5 punti si capisce che Renzi ha già messo abbondantemente in conto la sconfitta.

L'obiettivo è il 30% al primo turno e la ribalta del ballottaggio.
Con questi numeri Bersani non potrà ignorare il peso di Renzi. E non lo ignorerà, se è vero che uno dei motivi che hanno spinto il segretario a volere con forza queste primarie a dispetto della contrarietà di tutto l'establishment del partito è proprio quello di liberarsi dalla tutela e dal peso di questo establishment. Renzi sulla rottamazione ha vinto, ma ha vinto anche Bersani. Dopo le primarie il Pd subirà un profondo rinnovamento e anche i renziani avranno il loro posto in quello che ieri Renzi ha voluto più volte chiamare «il mio», «il nostro partito». Magari con una grande corrente organizzata sul territorio, sfruttando il capitale umano dei comitati. La sfida del sindaco di Firenze è dunque già rivolta oltre le primarie e oltre le elezioni politiche: è rivolta al congresso del Pd che si terrà tra qualche mese, a nuova legislatura iniziata.

Per ora vanno registati i toni bassi tenuti nei confronti di Bersani, salvo qualche piccola puntura di spillo («Bersani dica se Piero Ichino è dalla parte sbagliata come sostiene la leader della Cigl, dica se può restare nel partito»). E va registrata la fine della lamentazione sulle regole per le primarie («bisogna fare 15 minuti di fila per registrarsi? Facciamo 15 minuti di fila, allora, ne vale la pena per cambiare il Paese. E se perdiamo vorrà dire che abbiamo sbagliato noi»). Tradotto vuole dire che Renzi non si metterà a contestare i risultati delle primarie ricorrendo alle carte bollate. Come diceva ieri sera qui alla Leopolda il politologo D'Alimonte, «chiunque vinca dovrà fare un accordo con l'altro, il Pd deve restare unito. Renzi avrà bisogno di Bersani e Bersani di Renzi, e il Pd e l'Italia hanno bisogno di tutti e due».

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